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"Attentato alla giustizia", le armi spuntate dei giudici antimafia

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Non sono una novità degli anni ’90 le trattative tra Stato e mafia e Piergiorgio Morosini, gip presso il tribunale di Palermo, nel suo libro, “Attentato alla giustizia”, ne ricostruisce la storia dal secondo ottocento ai giorni nostri. Il libro è stato presentato, martedì 17 gennaio alla Feltrinelli, dal giornalista Nino Amadore, dal nuovo procuratore di Catania, Giovanni Salvi, e dall’autore.
Salvi ha aperto e ha chiuso i suoi interventi con parole di speranza, sottolineando i risultati straordinari ottenuti in Italia nella lotta alle organizzazioni criminali e, in particolare riguardo alla questione del rapporto tra pezzi dello stato e mafie, evitando di farla finire negli archivi segreti di qualche ufficio per gli affari riservati, come è accaduto nel caso di altri paesi come l’America degli anni 30 o la Francia del periodo successivo alla guerra d’Algeria.
Per Salvi è importante che tutti, ma in particolare coloro che lavorano per lo stato, diano il loro contributo perché la mafia non si sconfigge solo con l’impiego delle forze dell’ordine, ma anche con la “giustizia di prossimità”, affermando la forza dello Stato in ogni ambito e circostanza, perché “dove la legalità appare debole, dove i diritti si presentano difficilmente esigibili, dove l’immagine degli esponenti delle forze dell’ordine e della magistratura non è positiva, la mafia ne trae vantaggio”.
Anche un libro può essere uno strumento di contrasto alla criminalità organizzata. E Morosini ribadisce più volte che la società civile deve essere messa a conoscenza di ciò che è davvero la mafia oggi. Non più solo armi, pizzo e droga, ma un fenomeno molto più ampio e complesso, che ha a che fare con i circuiti economico-finanziari e con le attività della Pubblica Amministrazione.
“Noi magistrati, dice Morosini, sulla base delle nostre esperienze professionali, abbiamo il dovere morale di far sapere che i boss mafiosi non sono più i figli del degrado economico e ambientale”.
Anche il linguaggio va rivisto. Con l’espressione “infiltrazioni mafiose”, usata per descrivere la presenza delle mafie al Nord, rischiamo di deformare la verità e di esprimere una visione razzista. Molte concerie, molte imprese del settore chimico, in Emilia Romagna, in Lombardia, in Veneto, non sono infiltrate dalla mafia, ma “chiedono” mafia per lo smaltimento dei loro rifiuti. Si servono dei clan camorristici per abbattere i costi e portarli a 1/5 del valore di mercato. E non è tutto. Ci si rivolge alla ‘drangheta o a Cosa nostra per grosse operazioni di falsificazioni di fatture che permettono di evadere il fisco per milioni e milioni di euro. Si utilizzano in genere i servizi della mafia per gestire gli affari secondo modalità economicamente vantaggiose.
L’azione di contrasto alla criminalità organizzata necessita quindi, oggi, di una formazione specifica, ha bisogno di professionisti che “sappiano leggere nelle pieghe di un bilancio societario complesso e cogliere i vizi che si annidano in una procedura amministrativa. Senza queste competenze la nostra battaglia avrà armi spuntate.”
Ma neanche questa competenza è sufficiente, c’è un ulteriore ostacolo, il ritardo della nostra legislazione. Evasione fiscale, riciclaggio e corruzione, i tre aspetti che maggiormente caratterizzano oggi il fenomeno mafioso, non possono essere affrontati adeguatamente per mancanza di leggi idonee. L’Italia, ad esempio, non ha mai tradotto in legge gli strumenti di lotta alla corruzione individuati dodici anni fa nella convenzione europea di Strasburgo (1999), che pure il nostro paese ha sottoscritto.
Nella nostra legislazione non sono inoltre previste alcune figure, come quella di “agente provocatore”, che permetterebbero di cogliere sul fatto amministratori pubblici che intascano mazzette, come è avvenuto nel caso dell’arresto del sindaco di Washington, smascherato dal cosiddetto test d’integrità.
Nel nostro codice non sono contemplati alcuni reati come quello di “traffico di influenze”, e non possono quindi essere colpite le più sofisticate forme di corruzione, basate non sullo scambio tra una somma di denaro e un atto amministrativo, ma su una serie di combinazioni di favori tra diverse persone, difficilmente sanzionabili con l’attuale legislazione.
Per tutte queste ragioni quella sull’informazione è una vera battaglia culturale. Solo da conoscenze diffuse e condivise dalla società civile possono nascere incisivi interventi parlamentari. Se invece la società continuerà a leggere la mafia in modo riduttivo, ci dovremo accontentare di leggi che consentono di contrastare solo gli aspetti più noti e più tradizionali del fenomeno.
Nessuno sconto comunque viene fatto, da Morosini, alla sua categoria. A partire dagli episodi storici del passato, raccontati nel volume, fino ai recenti casi di magistrati coinvolti in indagini sul malaffare, la magistratura deve porsi il problema della questione morale. Ma forse l’aspetto più rilevante non è rappresentato, secondo Morosini, dai casi sporadici di degenerazione.
C’è un problema essenziale di deontologia. Come tutte le altre categorie, anche i magistrati subiscono la tentazione del carrierismo e soprattutto della cultura dell’immagine. Possono essere tentati di “coltivare fascicoli probatoriamente vuoti ma mediaticamente molto redditizi”, trascurando quelli mediaticamente più “neutri”, mentre è proprio qui che si giocano importanti partite “a tutela dei lavoratori, dei consumatori, dei risparmiatori”.
C’è anche un tentativo, forse velletario, in questo libro -confessa Morosini- quello di ricavare, dalla storia delle trattative tra pezzi dello stato e uomini di mafia,  chiavi di lettura utilizzabili per capire la realtà attuale. Alcuni degli aspetti che caratterizzarono la stagione delle stragi sono infatti presenti anche oggi: la crisi economica, alcuni focolai di tensione sociale, la crisi di identità dei partiti con una conseguente mancanza di riferimenti politici.
In un contesto di questo tipo, nel ’92/93. qualcuno cercò di cambiare anche gli equilibri istituzionali e lo stesso ordine costituzionale. Alcuni collaboratori di giustizia hanno parlato di un progetto eversivo che coinvolgeva le mafie e mirava alla secessione: dividere l’Italia in macroregioni, tra cui uno Stato del Sud.
Ne parlarono allora anche due editorialisti. In modo critico Giorgio Ruffolo su Repubblica, che denunciò il tentativo di fondare una Singapore mediterranea, ultramercatista e autoritaria, in cui Palermo sarebbe diventata il punto di riferimento di tutti i capitali sporchi.
Gianfranco Miglio, invece, in una intervista al Giornale si dichiarò disponibile al mantenimento della mafia e della ‘drangheta, perchè “c’è un clientelismo buono che determina crescita economica” e perchè alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate, “per non ridurre il Sud al modello europeo”.
E’ possibile utilizzare questa chiave di lettura per comprendere anche gli avvenimenti siciliani di questi giorni?
Link al file audio del primo intervento di Giovanni Salvi
Link al file audio del primo intervento di Piergiorgio Morosini

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