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Catania e le ville che non ci sono più, inutili ingombri sacrificati alla speculazione

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Villa Morosoli dell'architetto Sada, poi demolita

Il travolgente sviluppo edilizio che contrassegnò la Catania degli anni cinquanta fece delle vittime illustri, tra cui le bellissime ville liberty realizzate nei primi decenni del secolo, ormai considerate degli inutili ingombri da abbattere in nome di una malintesa crescita e modernizzazione della città.

Gianluca Majeli racconta le dinamiche di questa triste vicenda nel suo breve e intenso saggio, “Gli inutili ingombri”, pubblicato da Franco Angeli nel 2022.

Al posto di edifici unici sorsero anonimi palazzoni che permisero alla borghesia cittadina di mettere a frutto l’alto valore immobiliare dei terreni su cui le ville e i loro giardini insistevano.

Chi avrebbe dovuto tutelare questo patrimonio storico e artistico che la città stava per perdere definitivamente? e con quali strumenti? Majeli richiama, nei primi capitoli, gli interventi legislativi con cui alla vigilia della guerra (1939) e addirittura nel pieno del suo svolgimento (1942), era stata affrontato il problema della pianificazione e della tutela a livello nazionale.

Cita le leggi Bottai del ‘39, che prevedevano la tutela delle “cose di interesse artistico e storico”, con esclusione – però – di quelle di autori viventi o che non avessero almeno 50 anni di età, e la protezione delle bellezze naturali e paesaggistiche, comprese ville e giardini, che andavano individuate da apposite commissioni, mentre la legge del ‘42 affidava al Piano Regolatore Generale la pianificazione urbanistica.

La guerra e poi il passaggio dallo stato monarchico a quello repubblicano comportarono una battuta d’arresto anche su questo piano, insieme ad alcuni cambiamenti anche nominali, come nel caso del ministero responsabile della tutela, già denominato dell’Educazione nazionale e divenuto della Pubblica Istruzione, da cui dipendevano le Belle Arti.

Per la Sicilia, con la nascita dell’Autonomia regionale, si aggiunse il passaggio di competenze alla Regione che comportò ulteriori ritardi e, in una prima fase, anche poca chiarezza dal punto di vista amministrativo. Tanto che – come ricorda Majeli – per avere i primi vincoli paeasaggistici si dovrà attendere il 1955, quando a Catania fu vincolata la costa da Ognina a Capomulini.

Le Soprintendenze erano state, a loro volta, ristrutturate alla vigilia della guerra, con la separazione delle Soprintendenze ai monumenti da quelle alle antichità: a Catania ebbe sede la Soprintendenza ai monumenti per tutta la Sicilia orientale, a Siracusa quella alle antichità, con relativi problemi di interazione. Uffici che avrebbero dovuto esercitare la tutela su più province con un personale inadeguato dal punto di vista non solo numerico ma anche qualitativo.

A queste difficoltà si aggiungeva l’assenza, a Catania, del Piano regolatore previsto dalla legge. Le proposte di pianificazione non erano mancate, così come le contestazioni e gli accesi dibattiti, ma – prima di approdare, alla fine degli anni sessanta, al Piano Piccinato – la città rimase in una situazione di deregulation che venne cavalcata da imprenditori, amministratori e politici.

D’altra parte, come sottolinea Majeli, la Democrazia Cristiana, che aveva una posizione di preminenza nel governo della città, aveva esplicitamente messo “al centro della sua proposta politica proprio lo sviluppo del settore edilizio così da spingere il resto dell’economia cittadina e confermare la sua egemonia” (p. 35)

Accadde così che molte ville, troppo recenti per essere considerate “storiche” e prive della salvaguardia di un piano regolatore, fossero sacrificate agli interessi speculativi.

Esemplare la complessa vicenda di villa Manganelli, che l’autore racconta con dovizia di particolari. Salvata con grande difficoltà, la villa dovette comunque subire lo sfregio della costruzione di due incongrui corpi anteriori.

Dal dibattito cittadino e dal contenzioso giuridico attorno a Villa Manganelli emerge con chiarezza come, anche da parte di molti archtetti, “l’interesse patrimoniale” dei proprietari fosse considerato prevalente rispetto a quello artistico e quindi all’interesse della città.

Anche edifici di cui non si poteva disconoscere il valore storico, come palazzo Tezzano e Villa Cerami, si salvarono a fatica dal progetto di estendere verso ovest lo sventramento del quartiere San Berillo. Non si salvò, invece, il palazzo Spitaleri sulla via Etnea, danneggiato dai bombardamenti, al posto del quale fu realizzata la Rinascente.

In quei decenni la città fu travolta “da una alluvione di asfalto e cemento”, scrive, nella illuminante postfazione al saggio, la storica Melania Nucifora, che definisce la classe dirigente cittadina, politica ed economica, “incapace di apprezzare e difendere il patrimonio culturale”.

Se a Siracusa, scrive ancora Nucifora, il patrimonio archeologico e monumentale fu messo in salvo, ciò avvenne grazie alla autorevolezza culturale dell’archelogo Bernabò Brea, soprintedente alle antichità, affiancato dal medievista Giuseppe Agnello e dall’urbanista Vincenzo Cabianca, che lo inserirono in un “progetto complessivo di tutela del paesaggio urbano”, anche a costo di aprire un lungo capitolo di ricorsi.

Un tentativo che il soprintendente ai monumenti Pietro Lojacono, in carica a Catania dal ‘54 al ‘63, accusava di approssimazione perché forzava i limiti della legge di tutela paesaggistica del 1939.

La visione di Lojacono era basata sul’applicazione pedissequa delle norme, mancando a lui, semplice e a suo modo sincero servitore dello Stato (come evidenzia il carteggio recuperato dall’autore), la tempra per andare controcorrente.

Lojacono non vuole apparire un difensore del passato in un momento in cui, nel dibattito pubblico, domina una idea di sviluppo che sente ogni vincolo come un freno inaccettabile. Ecco perché evita i contenziosi e sceglie la linea della cautela.

Più volte Majeli torna sulla descrizione di una borghesia cittadina spinta ad operazioni speculative dal desiderio di intercettare le ingenti risorse destinate allo sviluppo dall’art.38 dello Statuto Siciliano e poi dalla Cassa per il Mezzogiorno, e di godere degli incentivi fiscali previsti dalle leggi 1 e 2 del 1949.

Non mancarono, tuttavia, le voci di dissenso. Di tutelare le belle ville di Catania come patrimonio cittadino, per le loro qualità architettoniche e per la presenza dei parchi, aveva parlato Michelangelo Mancini, ingegnere e tecnico comunale. Ma la voce più auterovole ed insistente fu quella di Matteo Gaudioso, storico e deputato socialista, per il quale il sistema delle ville andava salvaguardato nel suo insieme, secondo l’idea che andava in quel periodo maturando a livello nazionale (Carta di Gubbio).

Lojacono stigmatizzò la posizione di Gaudioso, accusandolo di voler fermare l’impetuoso sviluppo edilizio cittadino che, tra l’altro, essendo basato sullo sfruttamento intensivo dei suoli, avrà come conseguenza la cronica mancanza di verde di cui soffre la nostra città.

Cadde così, sotto i colpi dei demolitori, la bella villa d’Ayala, realizzata all’incrocio tra Corso Italia e viale Libertà dall’architetto Lanzerotti, per fare posto ad un grossissimo stabile con tre ingressi, botteghe, autorimesse e un gran numero di appartamenti che assicurarono un notevole guadagno ai proprietari e al costruttore. Fu demolito anche il villino Simili, opera di Francesco Fichera, e più tardi la villa Capuana, sempre sul Corso Italia, divenuto zona di pregio con valori di mercato molto elevati.

E poi, su via Tomaselli, villa Ecora e villa Palumbo, adiacenti alla Villa Bellini e per le quali si poteva – secondo Gaudioso – applicare la tutela utilizzando anche la legge del ‘39 sulle bellezze naturali. Una posizione non condivisa dalle Belle Arti, che considerarono di scarso interesse le ville di cui Gaudioso si faceva paladino. Venne sconvolto anche l’assetto urbanistico di piazza Santa Maria di Gesù con la demolizione di Villa Carcaci e la distruzione del suo giardino.

Il clima, intanto, andava cambiando, anche sulla base di una nuova consapevolezza che – scrive Majeli – emergeva nel “dibattito politico nazionale”.

Lo testimonia il “caso Succi”, vicesindaco e assessore ai lavori pubblici che venne condannato in primo grado per corruzione, falso e interesse privato. Un caso che fece emergere le “storture che avevano afflitto la gestione delle licenze edilizie negli anni precedenti” (p. 117), il “sistema malsano che alimentava la speculazione edilizia nella commistione tra interessi pubblici e interessi privati”.

Il testo di Majeli, oltre a fornire una attenta ricostruzione storica di una fase della vita cittadina, si rivela di grande attualità. Purtroppo, infatti, dopo alcuni decenni durante i quali l’idea della conservazione del patrimonio storico e artistico sembrava avesse prevalso – non solo a livello locale – su quella della modernizzazione piu’ sfrenata, oggi assistiamo a un ritorno del ruolo della rendita fondiaria come motore delle trasformazioni urbane.

Esaurito il ciclo dell’espansione della città, si tende a sostituire edifici e tessuti urbani, anche storici, con costruzioni che possono garantire maggiore redditività, spesso realizzate in seguito alla concessione di licenze edilizie che infrangono le regole urbanistiche.

Sono ‘storture’ simili a quelle di cui parla Majeli e segnalano un passo indietro di tipo culturale, che ha riflessi anche sulla legislazione più recente, tendenzialmente più permissiva nei confronti della speculazione.

7 Comments

  1. Manca la cultura anche a quelli che dovrebbero tutelare ieri e oggi,famoso il film anni 60 Le Mani sulla città.

  2. Lodevole intento.
    Giusto questa foto ed altre 2 della stessa Villa, progettata e realizzata dall’architetto Carlo Sada, fa parte del pacchetto di immagini che hanno accompagnato la mia recente conferenza al Rotary Centro di Catania il 16 aprile e, successivamente, il 18 aprile, la mia lezione nella Struttura Didattica Speciale di Architettura , Università di Catania, a Siracusa.

    Una nota: si tratta del Villino Morosoli, demolito, appunto.
    Ma mi si consenta di suggerire di fare attenzione nelle classificazioni stilistico -architettoniche.
    L’edificio non è’ in alcun modo annoverabile fra le opere in stile Liberty. Si tratta infatti di un esempio di Eclettismo che rimanda agli stili tradizionali svizzeri precedenti. Non è’ il solo di Sada che adotti questo linguaggio, come non è’ il solo a Catania in generale.
    Il villino Paterno’ Raddusa a San Giovanni La Punta utilizza stilemi analoghi anche se in una composizione un po’ più’ contestualizzata. Intanto Paolo Lanzerotti farà’ in modo più’ marcato il progetto di Villa Pancari.
    Sada non aderì’ mai al Liberty. Solo il suo più’ noto allievo, Malerba, integrera’ con lo stile Liberty la Villa Pancari a Salina per il “giardino d’inverno.”.
    Ben vengano gli studi sul patrimonio architettonico a cavallo fra i 2 secoli trascorsi. Ma che siano studi, studi approfonditi e appoggiati anche su buona bibliografia e documenti affidabili

  3. Aggiungo: anche il Villino Clementi -Sanatorio rimanda all’architettura austriaca con sguardo tenero di Carlo Sada all’architettura francese. Il Liberty, l’Art Nouveau, lo Jugend Stile, la versione austriaca costituiscono un universo stilistico, decorativo, semantico del tutto differente.

  4. La questione è più complessa e non è solo catanese. In pochissime righe :Il modernismo zeviano, le facoltà di architettura con il 18 politico e gli esami di gruppo. Ergo la speculazione edilizia ha trovato un terreno molto fertile. Una sorta di cancel culture utile solo agli speculatori

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