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La scuola va alla guerra, educhiamo alla pace.

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convegno di roma - sala

Mentre dai campus degli Stati Uniti alle università di tante parti del mondo cresce la protesta e la mobilitazione contro il genocidio del popolo palestinese, manifestazioni che troppo spesso vedono come unica risposta il ricorso alle forze di polizia e ai manganelli, c’è chi da un paio d’anni si interroga, e contrasta, la sempre più ingombrante presenza nelle scuole delle forze armate, italiane e straniere, e delle forze dell’ordine.

Stiamo parlando dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Una struttura plurale con all’interno docenti, esponenti della galassia pacifista, organizzazioni cattoliche, sindacati di base…Ormai alla fine dell’anno scolastico, è tempo di bilanci e di riflessioni, ma anche di individuare programmi per il futuro. E, per il presente, di confronto e supporto con studenti e docenti dell’università.

Il 10 maggio a Roma, presso lo Spin Time Labs, si è svolto il convegno su: “La scuola italiana va alla guerra. Comprendere i conflitti, educare alla pace”.

Michele Lucivero, introducendo i lavori, ha denunciato la crescente presenza dei militari nelle scuole, chiamati a formare allieve e allievi sui temi più vari (dal contrasto della violenza di genere, al contrasto delle dipendenze), nonostante sugli stessi temi abbiano maggiori competenze didattiche i docenti o migliori conoscenze e un diverso approccio, gli operatori del cosiddetto terzo settore e del mondo del volontariato.

Ha, inoltre, denunciato il numero sempre crescente di volte in cui le scolaresche sono condotte in caserme e basi militari, in particolare per il cosiddetto PCTO (ex alternanza scuola lavoro).

Per contrastare tutto questo, come ha ricordato Ludovico Chianese, l’Osservatorio ha elaborato un vademecum (a disposizione sul sito) che contiene, anche, i modelli di diffida da inviare alle scuole per evitare che si ripetano queste situazioni. Particolarmente gravi nel caso di alunni della scuola primaria, e spesso anche della scuola dell’infanzia.

Antonio Mazzeo (autore del libro “La scuola va alla guerra”) ha denunciato il linguaggio “securitario” sempre più presente nelle scuole. In particolare, si è soffermato sul progetto “I come Intelligence”, frutto di un accordo tra il MIM (Ministero dell’Istruzione e del Merito) e il DIS (servizi segreti), per promuovere nelle scuole la conoscenza della storia dei Servizi Segreti italiani ed i compiti affidati alla Sicurezza Nazionale. Un percorso itinerante rivolto agli studenti del primo biennio delle scuole superiori che, attraverso codici QR e quiz interattivi, metteranno alla prova le proprie capacità di “agente segreto”, allo scopo di ottenere una sorta di patentino da “007 in erba”. A conferma che nel mondo scolastico italiano la centralità dell’educazione alla pace è passata di moda.

Michele Lancione (Università di Torino) ha denunciato le convenzioni fra la Fondazione Leonardo Med-Or, che riempie di soldi le nostre scuole, e tante università italiane, di fatto asservite nei programmi di ricerca alle necessità di questa industria di armi (fra le prime tredici del mondo). L’Osservatorio ha promosso una raccolta firme (oltre 5 mila) per interrompere la collaborazione con Med-or. In particolare, ha messo in luce la trappola del “duplice uso” nel mondo della ricerca, che permette il trasferimento in ambito militare delle tecnologie sviluppate in quello civile.

“La questione non è semplicemente morale, ma di opportunità. Se noi lavoriamo con Leonardo, che vende gli Eurofighters ad Al Sisi, ci priviamo della libertà istituzionale di poter prendere posizioni chiare e credibili non solo contro le guerre, ma anche contro l’apparato militare industriale che ci sta dietro”.

Tra i primi interventi, quello di Alessandra Kersevan (saggista ed editrice) che ha sottolineato l’importanza di cogliere e analizzare le ragioni complessive che portano alle guerre, al di là del casus belli, rimettendo in discussione le ideologie che supportano, economicamente, culturalmente e socialmente, i conflitti. Stando attenti alle peculiarità dei conflitti del nostro tempo, spesso motivati dalla “esportazione della democrazia” e dalla guerra al terrorismo, guerre che mirano alla “distruttività totale” e che coinvolgono, diversamente dal passato, sempre più la popolazione civile.

Marco Travaglio (Direttore de Il Fatto Quotidiano) ha analizzato il modo con cui quasi tutti i media hanno raccontato i due principali conflitti del nostro presente (Russia/Ucraina e Israelo/Palestinese). “Putiniani smemorati che impartiscono lezioni di antiputinismo a chi ha sempre condannato Putin. Bellicisti da diporto che fanno il presentat’arm sul sofà e le marcette nel salotto di casa e della tv con l’elmetto sulle ventitré, tifano terza guerra mondiale (possibilmente atomica) sulla pelle degli altri, si eccitano per le stragi e per la corsa al riarmo, prendono per oro colato e rilanciano le balle più ridicole, compilano liste di proscrizione, tentano di tappare la bocca a chi non la pensa come loro. Tengono in ostaggio un Paese in gran parte pacifista e lo costringono a vergognarsi di credere nei grandi valori della pace, del dialogo e della Costituzione”.

Don Giovanni Ricchiuti (Presidente di Pax Christi) ha ricordato le parole di Giovanni XXIII “Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia […] Pensare, oggi (siamo nel 1963!), alla guerra come soluzione dei conflitti alienum est a ratione (è fuori dalla ragione)”. Per concludere che “La scuola è chiamata a educare alla fraternità e alla solidarietà, al rispetto e alla accoglienza delle differenze e delle diversità […] Queste le porte aperte della scuola, che vanno chiuse con determinazione a chi pensa ancora di affascinare le nuove generazioni con ‘uniformi’ non solo nelle divise ma come stile di vita e di relazioni. La scuola ‘educa’ e ‘forma’, non ‘addestra’.

Laura Marchetti (Università di Reggio Calabria) ha ragionato su: antropologia della guerra e genere. “Anche raffinate intellettuali sono sedotte dal fascino dei campi di battaglia e dall’odore del nemico ucciso. Mettono così a rischio non solo le nostre vite, ma la Vita, l’Amore, la Voce che dice e canta: vieni, ragioniamo, facciamo pace. Mettono a rischio la genealogia della Natura custode e matrice. E allora che conta se le donne hanno raggiunto parità di cognome? Cosa conta se questa genealogia assume tutti i disvalori del patriarcato, a cominciare dalla guerra, dal razzismo di guerra, dall’odio di guerra? Che conta una discendenza anche femminile, se questa non è materna, ovvero alternativa e trasformativa. Non conta se, nel Nome della Madre, non c’è anche il gesto di Ecuba, la sua estrema supplica”.

Charlie Barnao (Università di Catanzaro) ha analizzato i processi di militarizzazione della società sottolineando che “Esiste una correlazione tra il modello addestrativo delle forze armate e della polizia ed episodi di violenza sadica e incontrollata perpetrati da parte degli attori sociali formati sulla base di quel modello”. Ma ha ricordato soprattutto che “il militarismo appare come un vero e proprio sistema culturale, spesso latente, che pervade in modo subdolo e dissimulato le pratiche quotidiane nei mondi più disparati: dallo sport all’azienda, dall’industria dell’intrattenimento alla giustizia, dalla scuola all’università”.

Trattandosi di un incontro di formazione rivolto innanzitutto ai docenti, l’intervento conclusivo è toccato ad Annabella Coiro (Rete Edumana – Studiosa di educazione alla nonviolenza). La relatrice ha ribadito che “È necessaria un’azione coordinata per contrastare la violenza strutturale presente nella vita scolastica e per promuovere una cultura del dialogo e della relazione nonviolenta”. Occorre, perciò, rimettere in discussione gli attuali paradigmi educativi, scegliendo la nonviolenza come pratica didattica quotidiana. “L’interazione tra reti di scuole, tra il personale docente e non docente, tra tutte le persone che abitano la scuola e che condividono questi valori rappresenta un passo significativo, il vero antidoto per contrastare l’autoritarismo e l’individualismo crescente”. “Questo approccio pone l’accento sull’importanza della coerenza tra parole e azioni e sottolinea il ruolo cruciale del docente. Si sottolineano alcune metodologie didattiche generative come la maieutica reciproca, l’apprendimento cooperativo e la partecipazione attiva degli studenti nei processi decisionali, elemento chiave per la costruzione di una comunità educativa inclusiva e democratica”.

Una conclusione, quest’ultima, che ben rappresenta il ruolo e gli obiettivi che hanno caratterizzato e caratterizzeranno il lavoro dell’Osservatorio.

2 Comments

  1. Esistono esperienze didattiche di Educazione alla Pace, che andrebbero narrate e riproposte…potrei raccontarne una che ho sperimentato direttamente, per averla concepita, elaborata e condivisa per anni con colleghi, studenti, dirigenti, operatori scolastici e genitori…Volte che ve ne parli?

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