Inquinamento da fast fashion, perchè acquistare abiti di seconda mano non basta

4 mins read

60% in più rispetto al 2000. Sono i capi di abbigliamento che oggi acquistiamo e che, subito dopo, eliminiamo. E’ la moda usa e getta, detta anche fast fashion: abiti con vita brevissima, che durano al massimo una stagione. Un sistema in crescita, che si nutre di prezzi bassi, grandissima disponibilità, campagne pubblicitarie martellanti.

Lo chiamiamo consumismo, facciamo finta di non sapere che dietro ci sono diritti umani calpestati. La maglietta che ci costa solo cinque euro è, infatti, realizzata da lavoratori, più che altro donne, sfruttati, che non ricevono un salario dignitoso, lavorano un numero di ore disumano, in condizioni di scarsa igiene e senza tutele.

Quello che forse ancora non sappiamo è che quella maglietta che a noi costa solo 5 euro, costa moltissimo al pianeta, tantissima acqua, sostanze chimiche inquinanti (dai pesticidi usati nei campi di cotone ai prodotti chimici adoperati nei processi di filatura, tessitura, sbiancamento e tintura dei materisli) e molte emissioni di gas serra.

Le sostanze chimiche inquinanti sono tante, a partire dai pesticidi usati nei campi di cotone. Ma le fibre naturali sono state sostituite, per lo più, da fibre artificiali, come il nylon o l’acrilico, realizzate dal petrolio trasformato in fibre, quindi con lo stesso potere inquinante della plastica, compreso il rilascio di microplastiche durante il lavaggio. Anche le fibre semi-sintetiche, come la viscosa, che si ottengono dalle piante, necessitano di un processo di trasformazione che richiede l’uso di sostanze chimiche altamente inquinanti. Per non parlare dell’impatto ambientale determinato dallo smaltimento di questi tessuti, che merita di essere descritto in un apposito approfondimento. C’è poi l’enorme consumo di acqua, per produrre la maglietta di cui parlavamo si consumano 3.900 litri d’acqua, la quantità bevuta da una persona in 5 anni.

Non stupisce che, a partire da queste premesse, l’industria della moda usa e getta sia una delle più inquinanti al mondo. Basta pensare che l’intero settore produce, ogni anno, emissioni di gas serra pari a 1,2 miliardi, più dei trasporti aerei e marittimi internazionali. Sono i dati della Ellen MacArthur Foundation, e risalgono al 1917.

Come mai l’acquisto di capi di abbigliamento va crescendo anche se molti vestiti vengono poco usati e rimangono nell’armadio? La maggior parte delle persone, sollecitata dalla pubblicità, sente il bisogno di acquistare in continuazione per seguire le tendenze della moda, che offre sempre nuovi stimoli. Se un tempo nei negozi arrivava una nuova collezione quattro volte all’anno, oggi ne arrivano anche il triplo, ci dice chi lavora nel settore.

Qualcuno prova ad invertire la rotta. Il progetto #CambiaMODA! Promosso da Istituto Oikos, Mani Tese e Fair, finanziato dall’Agenzia per la Cooperazione Italiana, si propone – ad esempio – di favorire un cambiamento culturale e materiale del “sistema moda” attraverso percorsi didattici e campagne di sensibilizzazione rivolti soprattutto ai più giovani. Suggerisce anche gesti semplici come quello di frequentare negozi di seconda mano o donare i propri abiti usati invece di buttarli.

Approfondendo, però, constatiamo che non ci sono ricette facili e scontate. Prendiamo, da una parte, l’esempio di Mani Tese, che ha una lunga tradizione di attenzione all’ambiente e di contrasto al consumismo attraverso il riutilizzo degli oggetti, abiti compresi. Li riceve in dono e li rivende nel proprio mercatino dell’usato, che a Catania si trova in via Montenero, alimentando – con il ricavato della vendita – progetti e campagne nel Sud del mondo.

Questo esempio di riutilizzo dell’abbigliamento non è, tuttavia, quello dominante. Sulla compravendita dei capi di seconda mano sono nati, di recente, notevoli giri di affari che fanno riferimento alla sostenibilità, ma di sostenibile hanno ben poco.

Prendiamo il caso di Vinted, una piattaforma attraverso la quale è possibile vendere ed acquistare abiti, scarpe e accessori usati. Ne parla un articolo di Internazionale, “Una soluzione di seconda mano”, ricordando che il mercato dell’usato vale in Europa circa 17 miliardi di euro. Ed è in crescita, tanto che anche aziende come H&M e Zalando hanno aperto on line canali di vendita di vestiti usati. Pare infatti che sia più facile indurre i consumatori a comprare vestiti di seconda mano piuttosto che a ridurre gli acquisti.

Vinted ha sede in Lituania ma i suoi pacchetti vanno in giro in quasi tutti i paesi europei, seguendo percorsi che possono essere ricostruiti con un apposito software e che si sono rivelati più lunghi e tortuosi di quanto dovrebbero essere.

A chi denuncia l’inquinamento prodotto da questi trasferimenti, altri rispondono che sono inquinanti anche gli spostamenti compiuti dai singoli acquirenti per recarsi con mezzi propri ad acquistare i prodotti piuttosto che riceverli a domicilio. Mettere a confronto i due livelli di inquinamento non è semplice. E forse in realtà non serve molto.

La conclusione interessante a cui sono arrivati gli analisti è che l’acquisto di abiti usati non sostituisce quello di abiti nuovi. I soldi risparmiati nel comprare un capo di seconda mano possono essere usati per comprarne uno nuovo o anche un altro usato. Non a caso si parla di effetto rebound: il commercio di seconda mano non scoraggia il consumismo, anzi lo alimenta.

Ne è prova il fatto che, nonostante la crescita dell’usato, le vendite delle grandi catene non sono diminuite e neanche l’offerta di vestiti nuovi. In conclusione abbiamo accelerato ulteriormente il nostro ciclo di consumo. Forse l’unico effetto positivo è che l’acquisto di prodotti usati sta diventando un’abitudine socialmente accettata.

Il vero cambiamento, secondo la ricercatrice Van Duijn, esperta di economia circolare (ma anche secondo quanto ci suggerisce il buonsenso), avverrà quando impareremo a riconoscere il valore degli abiti smettendo di trattarli come prodotti usa e getta. “Dobbiamo riabituarci a ripararli e ad adattarli, invece di buttarli via”. Come del resto si faceva una volta e come adesso non fa quasi più nessuno.

Per contrastare il cambiamento climatico urge soprattutto cambiare mentalità e comportamenti. Altrimenti teniamoci le temperature torride e le tempeste di ghiaccio sperimentate in questi giorni. E non cerchiamo altri colpevoli che noi stessi.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Gli ultimi articoli - Ambiente