Autonomia differenziata, la distruzione dell’unità nazionale accresce le disuguaglianze

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Scelte irresponsabili compiute da maggioranze parlamentari di centro sinistra per contrastare le idee secessioniste della Lega rischiano di portarci alla disintegrazione dell’Unità nazionale e al totale stravolgimento della nostra Costituzione.

A decretare la fine della Repubblica unica e indivisibile (art 5 della Costituzione) e a scardinare il ruolo dello Stato eliminandone le prerogative fondamentali, sarebbe l’Autonomia differenziata, un progetto che minaccia i diritti civili e sociali e farebbe crescere enormemente le disuguaglianze, bloccando lo sviluppo del sistema Paese.

Ne hanno discusso Domenico Gallo, magistrato cassazionista già senatore della Repubblica, Salvatore Palidda, docente di sociologia all’Università di Genova e il costituzionalista Ettore Palazzolo, nel Forum del Mezzogiorno di ‘Memoria e futuro’ delllo scorso 16 dicembre.

L’Autonomia differenziata ha la propria origine nella Riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da una maggioranza di centrosinistra che sosteneva allora il Governo Amato. Riforma che attribuisce alla Regioni competenze legislative che prima non avevano, ridisegnando i rapporti tra Stato e Regioni e ampliando in maniera consistente il numero e la qualità delle materie di ‘competenza legislativa concorrente’, nelle quali allo Stato spetta il ruolo di emettere le norme generali e alle regioni quello di fare le leggi su queste materie.

Al 3° comma dell’art. 116, veniva introdotta l’Autonomia differenziata, in base alla quale, le Regioni, previa intesa con il Governo, da approvare con Legge statale, avrebbero potuto trasformare la competenza concorrente in potestà assoluta. Conseguentemente, materie fondamentali come l’Istruzione, l’Ambiente, la Salute, il Lavoro e altre ancora rischiano di venire attribuite in esclusiva alle Regioni, impedendo che lo Stato e quindi le Assemblee parlamentari possano in alcun modo intervenire.

Dopo lo svolgimento di due referendum consultivi in Veneto e Lombardia, nel 2018, il governo Gentiloni siglava tre accordi preliminari con le suddette Regioni e con l’Emilia Romagna, sulla implementazione delle competenze regionali. Sono seguite le tre bozze di legge, elaborate, nell’ordine, a seconda dei diversi Governi, da Boccia, Gelmini e Calderoli, che non hanno però avuto sufficiente diffusione e di cui non si ha conoscenza integrale. Anche perchè, in generale, questo è un tema di cui si parla molto poco, nonostante rivesta un’importanza estrema.

Ancor prima dei contenuti, è preoccupante la procedura indicata nell’accordo quadro contrattato da Gentiloni con le Regioni interessate, il cui numero è peraltro destinato a crescere.

La procedura inizia con la negoziazione, tra Stato e Regione, di una Intesa sulla devoluzione di un certo numero di materie che diventerebbero di competenza esclusiva regionale, essa deve poi passare dal Parlamento per l’approvazione. Il Parlamento, però, secondo l’interpretazione prevalente, non ha la possibilità di modificare questa Intesa, può solo approvarla o respingerla. “Se c’è un danno, si tratta di un danno irreversibile”, spiega Gallo, perché la modifica può venire solo da una diversa intesa con la Regione, e la legge non può essere abrogata nemmeno da un referendum abrogativo.

Non è chiaro nemmeno quale ruolo resterebbe allo Stato, tanto che sulle difficoltà di definire i confini tra i poteri dello Stato e delle Regioni – ricorda Gallo – ha lavorato per 20 anni la Corte Costituzionale.

Dovrebbe essere di competenza dello Stato la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) che vanno garantite su tutto il territorio nazionale, ma non è detto che le Regioni non pretendano per sé la possibilità di definirli sul proprio territorio.

La questione è, in ogni caso, delicata e complessa, soprattutto a causa degli squilibri esistenti tra le varie regioni, e anche all’interno di ogni singola regione. Se in Emilia ci sono 10 asili nido ogni 100 abitanti e in Calabria 2 asili nido per un numero equivalente di abitanti, quale sarà il livello minimo per offrire a tutti i cittadini una prestazione sociale soddisfacente?

Per colmare i divari servirebbero investimenti, ma la questione delle risorse è proprio una delle più problematiche. Il Veneto, ad esempio, ha chiesto di trattenere i 9/10 delle entrate tributarie dei cittadini veneti, perché ritiene che esse vadano spese sul proprio territorio e non redistribuite sull’intero territorio nazionale. E’ evidente che un impianto di questo genere svantaggerebbe le regioni più povere, per lo più meridionali, venendo meno alla funzione mutualistica e cooperativa prevista anche dalla Costituzione.

Penalizzerebbe il Sud – come ha precisato Palazzolo – anche la ripartizione delle risorse fiscali secondo il criterio della “spesa storica”, cioè le somme spese negli anni passati. Un sistema che confermerebbe squilibri sociali ed economici esistenti, escludendo ogni prospettiva di un loro superamento.

Di riproduzione della marginalizzazione del Mezzogiorno ha parlato Palidda, che ha evidenziato anche le responsabilità delle classi dominanti meridionali, ‘corrotte’ dalla concessione di privilegi per se stesse. Per la Sicilia, ha citato la grande occasione mancata dell’autonomia siciliana, che poteva essere occasione di sviluppo e ha avuto invece conseguenze devastanti.

Con l’introduzione dell’Autonomia differenziata, al di là del numero delle materie ‘concorrenti’, che oggi sembra che si voglia ridurre, la disgregazione dell’unità nazionale e l’ampliamento delle diseguaglianze sarebbe comunque inevitabile. Anche Fratelli d’Italia, pur di garantire la maggioranza, sarebbe disposto a cedere sull’unità, magari per ottenerne in cambio il via libera al presidenzialismo, contrabbandato come garanzia di coesione.

Che fare? Andare allo scontro frontale, anche a rischio di una sconfitta? Oppure seguire una strada più istituzionale, come quella intrapresa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale che, insieme ad altre associazioni, ha presentato una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che trasformerebbe l’Autonomia differenziata in una eccezione ben circoscritta, ponendo una serie di limiti e modificando la disciplina legislativa in modo che Parlamento e popolo possano intervenire in maniera significativa. E’ prevista anche una ‘clausola di supremazia’ che consente al Governo di intervenire, come del resto avviene in tutti gli Stati federali.

La modifica del regolamento del Senato (2017), inoltre, garantisce che la proposta di legge popolare, a differenza dal passato, quando queste leggi restavano nei cassetti, venga discussa in tempi ragionevoli. E il confronto su questa legge, in Senato, farebbe emergere le contraddizioni, costringendo le forze politiche a schierarsi.

Anche la raccolta delle firme, già iniziata, può diventare – a parere di Gallo – una occasione importante per diffondere la conoscenza di questo progetto e per spiegarne difetti e pericoli, creando una mobilitazione dal basso. I cittadini si renderebbero conto del rischio che – con un’Autonomia differenziata spinta – diventi impossibile avere una politica nazionale dell’energia, dei trasporti, della tutela dell’ambiente, dell’istruzione, della salute.

E mentre Palazzolo spera in un intervento della Corte Costituzionale, Palidda non condivide le speranze in possibili sviluppi istituzionali espresse da Gallo, e manifesta un forte pessimismo che ha le sue radici soprattutto nella sfiducia verso l’attuale maggioranza di governo, da lui bollata come “reazionaria e antimeridionalista”.

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