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Diritto alla salute, svuotamento della Costituzione e Autonomia Differenziata

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Le liste di attesa per le prestazioni sanitarie sono insopportabilmente lunghe e, spesso, chi può si serve di prestazioni a pagamento. Chi non può, rinuncia a curarsi.

Secondo l’Istat “Nel confronto tra il 2022 e gli anni pregressi della pandemia, emerge un’inequivocabile barriera all’accesso costituita dalle lunghe liste di attesa, che nel 2022 diventa il motivo più frequente (il 4,2% della popolazione), a fronte di una riduzione della quota di chi rinuncia per motivi economici (3,2%)”.

Che la realizzazione delle Autonomia Differenziata possa ulteriormente peggiorare la situazione e allargare le differenze fra regioni “avanzate” e regioni “arretrate”, più che una preoccupazione è una certezza. In sostanza, l’accesso di tutti i cittadini alle prestazioni sanitarie (art. 32 della Costituzione) rischia di diventare una vuota petizione di principio, in quanto potrebbero non essere garantiti, in tutto il Paese, i livelli essenziali di assistenza, i cosiddetti LEA.

In generale infatti, le Regioni potranno chiedere e concordare con il governo la “devoluzione” di competenze e risorse, tenendo conto che l’autonomia differenziata prevede la possibilità di trattenere parte del gettito fiscale generato sul territorio per il finanziamento dei servizi e delle funzioni di cui si chiede il trasferimento. Una opzione che svantaggerebbe le regioni più povere, per lo più meridionali, venendo meno alla funzione mutualistica e cooperativa prevista anche dalla Costituzione.

A ciò si aggiunge il criterio della spesa storica, (ovvero quanto si è sino ad oggi investito nelle singole regioni) che farà aumentare le diseguaglianze perché darà di più a chi ha di più e lascerà indietro chi non ha le possibilità di attuare determinati servizi.

Sono tanti i modi per rilevare le differenze territoriali nell’accesso alla prevenzione e alle cure. Utilizziamo qui alcuni dati forniti dalla Fondazione GIMBE, che ha lo scopo di promuovere e realizzare attività di formazione e ricerca in ambito sanitario.

E ci soffermiamo in particolare su “La mobilità sanitaria interregionale nel 2021”, il Report dell’Osservatorio GIMBE 1/2024 che offre un quadro chiaro e articolato delle attuali differenze.

Attraverso la mobilità sanitaria, infatti, emergono con chiarezza le grandi diseguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni e, soprattutto, tra il Nord e il Sud del Paese.

Nel report si legge: “il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) garantisce l’assistenza ai cittadini iscritti presso le strutture sanitarie della propria Regione di residenza: il cittadino può comunque esercitare il diritto di essere assistito anche in altre Regioni”.

Si tratta del fenomeno noto come mobilità sanitaria interregionale che viene distinta in:

  • Mobilità attiva, che indica l’indice di attrazione di una Regione, ovvero le prestazioni sanitarie erogate a cittadini non residenti.
  • Mobilità passiva: esprime l’indice di fuga da una Regione, ovvero le prestazioni sanitarie erogate ai cittadini in una Regione diversa da quella di residenza.

E’ un fenomeno che ben conosciamo e che si verifica quando, per curarsi, ci si sposta da una Regione che offre servizi meno buoni verso un’altra Regione che ne offre di migliori perché possiede attrezzature più avanzate o medici più preparati (o ritenuti tali).

Dal punto di vista economico, “visto che per le Regioni la mobilità attiva rappresenta una voce di credito e quella passiva una voce di debito, la Regione che eroga la prestazione viene rimborsata da quella di residenza del cittadino”. Tanto per intenderci, la Regione più ‘povera’ paga le spese di cura a quella più ‘ricca’ .

Secondo GIMBE “Nel 2021, la mobilità sanitaria interregionale in Italia ha raggiunto un valore di € 4,25 miliardi, cifra nettamente superiore a quella del 2020 (€ 3,33 miliardi), con saldi estremamente variabili tra le Regioni del Nord e quelle del Sud. Il saldo è la differenza tra mobilità attiva, ovvero l’attrazione di pazienti provenienti da altre Regioni, e quella passiva, cioè la “migrazione” dei pazienti dalla Regione di residenza”.

Inutile a dirsi, in “saldo positivo” troviamo nell’ordine: Emilia Romagna (+ 441.000 euro), Lombardia (+ 271.000), Veneto (+ 228.000). In “saldo negativo”: Calabria (- 252.000), Campania (- 220.000), Sicilia (- 177.000), Lazio (- 139.000).

Inoltre, “oltre il 50% dei ricoveri e delle prestazioni ambulatoriali in mobilità vengono erogate da strutture private accreditate, un ulteriore segnale di impoverimento del SSN”.

Va notato che i flussi vanno da sud a nord e, in particolare, verso quelle regioni (Emilia, Lombardia e Veneto) che hanno richiesto maggiore autonomia al governo e che verrebbero ulteriormente premiate dall’Autonomia Differenziata, come si è precedentemente notato facendo riferimento al criterio della cosiddetta spesa storica.

“Complessivamente – leggiamo ancora nel Report – l’86,1% della mobilità sanitaria è relativo a prestazioni di ricovero ordinario e day hospital (69,6%) e specialistica ambulatoriale (16,5%)”. Si tratta quindi di trasferimenti non sempre giustificati dalla presenza di patologie particolari. Inoltre “oltre la metà viene erogata dalle strutture private, segnale inequivocabile di indebolimento di quelle pubbliche”.

Alle spese strettamente sanitarie vanno inoltre aggiunte quelle relative agli accompagnatori coinvolti, ai trasporti, all’alloggio, alle assenze dal lavoro, tutti costi che gravano sui pazienti e sulle loro famiglie, vanificando il diritto costituzionale che garantisce a tutti, e in particolare agli indigenti, la tutela della salute e cure gratuite.

Un diritto che, qualora fosse approvato il progetto dell’Autonomia Differenziata, rischia di essere, di fatto, abolito. Insieme alla possibilità di curarsi in Regioni diverse da quelle di residenza.

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