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Catania, perchè gli amministratori che affossano la città non perdono il consenso?

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comizio politico, oratore

Siamo abituati a vedere Catania e la Sicilia agli ultimi posti delle graduatorie nazionali relative alla vivibilità, al verde, alla mobiltà. Non ci ha stupito vedere confermata questa collocazione nella dettagliata relazione svolta da Rita Palidda, già docente di Sociologia economica nell’Università di Catania, al convegno su “Potere, società e consenso nella realtà catanese”, organizzato da Volerelaluna, che ha avuto luogo giovedì 29 maggio in via Crociferi. Anche se non ci aspettavamo che la nostra città fosse, in alcuni casi, al di sotto della media regionale.

I dati dell’ISTAT, della Banca d’Italia, delle Camere di commercio, confermano che la nostra città risulta agli ultimi posti in settori come la mortalità infantile, l’istruzione, l’occupazione (femminile in particolare), il reddito, la gestione dei rifiuti, con un indicatore del benessere tra i più bassi in Italia. Anche i settori in miglioramento – ha notato Palidda – non sono esenti da ombre, visto che il turismo è soggetto alle variazioni congiunturali e l’edilizia porta con sé la cementificazione.

Un quadro preoccupante soprattutto perché caratterizzato da gravissime disuguaglianze tra una porzione di ceto medio-alto che ha standard di vita soddisfacenti e la maggioranza della popolazione che vive in un degrado economico-sociale e culturale molto grave, che la studiosa ha definito – anche da un punto di vista utilitaristico – “una zavorra per lo sviluppo della città”.

Anche nel campo dell’innovazione e della transizione digitale, Catania e la Sicilia non riescono a decollare nonostante la presenza di imprenditorialità innovativa e nonostante ci siano ‘innovatori’ che vengono nella nostra regione, attratti dal capitale umano qualificato e dalla minore presenza di competitors. Ne ha parlato Davide Arcidiacono, docente di Sociologia economica al dipartimento Scienze politiche, che ha messo il dito su due piaghe non sanate, l’assenza del pubblico (Regione, Comuni) che non svolge la funzione di regia e di gestione dei fondi che viene esercitata, invece, nelle regioni all’avanguardia, e il ruolo inadeguato degli atenei.

Le università di Palermo, Catania e parzialmente Messina, sono un punto di riferimento sul territorio, nei confronti del quale svolgono un ruolo di collante, ma non collaborano tra loro, contribuendo a creare – ha concluso il relatore – una “innovazione senza sistema”, sganciata anche dall’ecosistema nazionale.

Davanti ad una situazione cosìffatta è molto difficile accettare la narrazione trionfalistica che ci viene proposta a livello istituzionale, e ancor meno si spiega come, nonostante il malcontento generalizzato, nonostante il basso livello dei servizi forniti, il consenso verso i partiti che sono al governo della città rimanga alto. Come se la classe politica locale non fosse considerata responsabile dei disservizi e della bassa qualità della vita della città.

Proprio da questo paradossale contrasto tra lo scontento diffuso e il permanere del consenso nasce la domanda su cui verte il convegno, come ha detto, in apertura, il responsabile della sezione catenese di Volerelaluna, Franco Russo.

Sulla formazione del consenso verteranno le relazioni successive, a cominciare da quella di Rossana Sampugnaro e Francesca Montemagno, anch’esse docenti a Scienze Politiche che si sono occupate delle “regole del gioco”.

Le due studiose hanno esposto i risultati di una indagine condotta sulla mobilitazione degli elettori in occasione dell’election day del 2022, che ha permesso di confrontare le modalità di raccolta del consenso nel caso di elezioni politiche nazionali e di elezioni amministrative regionali. Un confronto che ha tenuto conto anche delle differenze tra la normativa delle regionali, che consente l’espressione di preferenze e il voto disgiunto, e quella delle politiche, con liste bloccate e impossibilità di esprimere preferenze.

Nella misurazione del consenso è stato, inoltre, necessario tenere conto che va a votare solo il 46 % circa della popolazione, con occasionali piccoli recuperi che permettono al massimo di parlare di “contenimento dell’astensione”.

L’indagine ha riguardato sia l’esposizione (incontri con il candidato) degli elettori, sia la loro mobilitazione (invito al voto) diretta e/o indiretta. E la conclusione è stata che entrambe sono maggiori nelle elezioni regionali, in cui è più presente l’incontro fisico con i candidati, sostituito alle nazionali dall’uso del web. E che la mobilitazione è più presente nei confronti dei candidati all’assemblea regionale rispetto ai candidati alla presidenza.

Con un grado più alto di attivismo verso i candidati che si dimostrano disponibili a risolvere i problemi dell’elettore, senza che venga tenuta in conto la statura morale del candidato.

Un modo di porsi davanti alla politica che spiega come possa accadere che un candidato cambi partito, o addirittura schieramento politico, senza perdere per questo la sua capacità di attrarre preferenze. Lo dimostra il caso di Luca Sammartino, rimasto grande attrattore di preferenze nonostante abbia più volte cambiato partito e una volta anche area politica.

Sulla questione delle preferenze si sofferma anche Paolino Maniscalco nel suo intervento, in cui è confluita la sua esperienza di militante sindacale e politico, e poi di amministratore nella prima giunta Bianco. La vittoria di Bianco alle elezioni comunali del 1993 non rappresentò, a suo parere, una vera svolta politica. Fu, infatti, determinata da alcuni fattori contingenti, il peso dell’esperienza di Tangentopoli, una reazione alle stragi di mafia, l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco. Che le ‘simpatie’ politiche degli elettori non fossero cambiate, lo dimostra – a parere del relatore – il numero di seggi conquistati in consiglio comunale dalla DC, ben 22, con un numero di preferenze molto alto, mentre i consiglieri del centro sinistra ebbero un numero di preferenze decisamente inferiore.

Del resto nell’area della destra – prosegue Maniscalco – il voto era prevalentemente dato alla persona, mentre nell’area della sinistra si votava il partito. Partito che, però, andava smantellando l’organizzazione che aveva rappresentato la sua forza sul territorio.

L’amministrazione Bianco lavorò bene, il suoi successi furono riconosciuti anche dagli avversari e a livello nazionale, e Maniscalco ricorda che persino Vittorio Feltri invitò Milano ad imitare Catania e quello che lì era stato fatto con “pochi soldi e molta fantasia”.

Avere amministrato bene non bastò. Il relatore ricorda che quando, dopo la rielezione di Bianco nel ‘97 e la sua nomina a Ministro nel ‘99, si tornò a votare, vinse Scapagnini.

I motivi individuati da Maniscalco sono diversi. Era in corso una “feudalizzazione”, un passaggio “dal partito ai potentati”, oltre al fatto che erano state introdotte modifiche tecniche, come l’abolizione della doppia scheda, trascurate dalla sinistra ma sfruttate dalla destra. Ed erano entrati in scena i patronati, con un ruolo – come avviene oggi per i caf – di attrattori di consenso.

Su questo ultimo punto, il relatore non è drasticamente negativo, prende in considerazione anche il punto di vista del cittadino che si vede aiutato nello svolgimento delle pratiche, acquista fiducia nella persona con cui ha interagito e, se si candida, lo vota “per stima”. E’ la sinistra che deve ripensarsi, conclude, recuperando la presenza nei quartieri, ragionando sulle alleanze e cercando di raggiungere coloro che non votano.

Paradigmatica rispetto alle tecniche di raccolta del consenso sul territorio è la figura di Raffaele Lombardo, fondatore del MPA, un partito dalla vita breve, che queste tecniche ha saputo mettere a sistema, utilizzando ciò che aveva ereditato soprattutto dalla DC e lasciando a sua volta un’eredità alle formazioni politiche successive. Se ne è occupato Antonio Vesco, docente di antropologia culturale all’Università di Catania, che – rifiutando le facili generalizzazioni che riconducono tutte le ‘disgrazie’ della nostra isola alla mafia o ad un clientelismo becero – ha studiato le tecniche di costruzione del consenso utilizzate da Lombardo e compagni, riconducendole ad alcune parole chiave.

La prima è struttura, una vera e propria struttura organizzativa basata su “presenza, relazioni trasversali al di là di appartenenze e schieramenti, radici nel passato democristiano e contiguità con le istituzioni (sindacato, Chiesa, Comune), a maggior ragione da quando lo spoil system determina l’attribuzione degli incarichi nella pubblica amministrazione”.

Una descrizione del modo di fare politica che non ha nulla a che vedere con l’impegno per migliorare le condizioni della città, e che – nella forma di un sistema di scambi e favori – era stato rivendicato in passato da Nino Drago e di recente da un ex sindaco di Catania che ha candidamente riconosciuto, in una chiacchierata con Vesco, la legittimità di una ricerca del consenso (e di voti) basata su azioni volte a procurare un lavoro o venire in altro modo incontro alle richieste dell’elettore.

Giustificato pubblicamente “senza nessuna autocensura” e ammantato di legittimità, questo modo di fare politica che si basa sui “vizi della popolazione”, sui “Siciliani che sono fatti così”, diventa una conferma di quanto sostengono alcuni studiosi, “i vizi e le colpe condivise uniscono più dei valori”.

Di politici che cavalcano i disservizi invece di risolverli parla Antonio Fisichella del Comitato di contrasto alla povertà educativa, portando l’esempio del sindaco Trantino che si atteggia a pedagogo dei ragazzini delle scuole e riesce a catturare consenso tacendo dei veri e gravi problemi della città. Una città che detiene il record della dispersione scolastica e della criminalità minorile, già denunciato quaranta anni fa dal giudice Scidà, che determina i “destini incagliati di intere generazioni”. Tanto che – ricorda Fisichella – l’ingresso nel circuito penale, molto curato sia a livello di IPM che di USSM, diventa occasione di esperienze positive e stimolanti che mai questi giovani avrebbero fatto sulla strada o nelle loro famiglie, spesso disastrate.

Una condizione giovanile estremamente problematica, quindi, di cui la scuola non riesce da sola a farsi carico, nonostante esempi di eccellenza. Anche se oggi in città qualcosa si muove, nascono collaborazioni e patti educativi che coinvolgono le associazioni sane presenti sul territorio aprendo nuove prospettive. Quello che manca sono soprattutto le risposte istituzionali, assolutamente inadeguate a fronteggiare questo gravissimo disagio e incapaci di invertire la rotta, anche solo moltiplicando la percentuale insignificante del tempo pieno nelle scuole.

Fisichella, autore del saggio La città in pugno, in cui ha affrontato non solo il tema del monopolio dell’informazione nell’era Ciancio ma anche quello della speculazione sui suoli e della concezione predatoria della cosa pubblica, riconosce i segni del nuovo sacco a cui oggi è sottoposta la città. Con nuove caratteristiche, vista la presenza di grandi soggetti finanziari e di istituti bancari dei quali cui i nuovi rampanti imprenditori si presentano come mediatori. Con la complicità della politica locale che, invece di impegnarsi a rispondere ai veri bisogni dei cittadini, destina ad interventi edilizi più del 90 % dei fondi destinati a San Cristoforo dal cosiddetto decreto Caivano ed eleva, in molte altre operazioni previste in città, un nuovo inno al cemento.

2 Comments

  1. Come si fa’ ha fermare questo affabbulatore di sindaco detto alla catanese mi sembra di andare da suo padre x farmi difendere da un guaio..e cresciuto senza responsabilità

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