Una riflessione sui nuovi scenari legati all’uso terapeutico dei cannabinoidi e sulle eventuali azioni da intraprendere per far nascere un’organizzazione no profit sul modello dei Cannabis Social Club, che si stanno diffondendo in Europa.
Questi i temi discussi dalle persone, diverse per età, interessi e condizioni di lavoro, che si sono incontrate il 23 ottobre presso la sede della LILA (Lega Italiana per la lotta contro l’AIDS) di Catania.
Obiettivo: rendere effettivo il diritto alla salute di coloro che possono accedere alla cura e sviluppare una concreta ed efficace azione di intervento sulle questioni sociali e politiche legate alla cannabis.
Innanzitutto si è preso atto del fatto che su questi temi, finalmente, si inizia a voltare pagina.
In Italia, la Corte Costituzionale (sentenza del 25 febbraio 2014, n. 32) ha dichiarato illegittima la normativa sugli stupefacenti dal 2006 al 2013 (legge Fini-Giovanardi), riportando in vigore la vecchia legge (emendata in seguito al referendum del 1993), che distingue fra droghe leggere e droghe pesanti.
A livello internazionale, la Global Commission on Drug Policy ha affermato che “La guerra mondiale alla droga ha fallito con devastanti conseguenze per gli individui e le comunità di tutto il mondo […] La strada, da oggi, deve essere piuttosto quella di puntare a una ‘riduzione del danno’, contrastando prima di tutto la vera base del traffico di droga: la criminalità organizzata. In una parola: legalizzare”.
E un appello in questa direzione è stato promosso da personalità “insospettabili”. Tra gli altri l’ex presidente dell’ONU, Kofi Annan, l’ex commissario UE, Javier Solana, l’ex segretario di stato USA, George Schultz , Michel Kazatchkine, direttore del Fondo mondiale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria.
In questo quadro, non è tollerabile, il ritardo dell’Italia rispetto all’uso terapeutico dei derivati della cannabis, in particolare per quelle situazioni (spasticità muscolare; anoressia, insonnia, sonnolenza e stati dolorosi nei trattamenti chemioterapici, nei pazienti terminali, sia neoplastici che in AIDS) per le quali non esistono valide alternative terapeutiche.
La procedura per ottenere i farmaci è macchinosa, lenta; nel 2013, infatti, solo 60 persone hanno ottenuto l’autorizzazione a importare questi prodotti. Essa prevede una lunga sequenza di passaggi: medico curante, azienda sanitaria, struttura ospedaliera, autorizzazione del Ministero, ricorso al mercato straniero, importazione, farmacia ospedaliera.
I tempi di attesa superano abitualmente i tre mesi e il trattamento è limitato e prevede periodiche sospensioni. Il prezzo di un prodotto ammonta in genere a dieci volte quello della sostanza originaria. La mancanza di studio e ricerca clinica in Italia, inoltre, impedisce ai medici di conoscere i benefici terapeutici della cannabis, che difficilmente viene prescritta.
In questa direzione, accanto alla richiesta di semplificare l’iter burocratico, i presenti hanno ritenuto opportuno iniziare a discutere, anche, della possibilità di permettere la coltivazione per scopo terapeutico, come avviene in altre parti del mondo.
Rispetto al fatto che, dopo l’intervento della Corte, la “nuova-vecchia legge” prevede un trattamento sanzionatorio più mite rispetto alle cosiddette ‘droghe leggere’ (reclusione da due a sei anni, anziché da sei a venti), i partecipanti hanno condiviso l’idea di far conoscere e applicare tale normativa, per incentivare processi di fuoriuscita dal carcere e promuovere percorsi di integrazione.
Infine, una parte della discussione è stata dedicata alle motivazioni che hanno determinato la progressiva ‘demonizzazione’ della pianta. Motivazioni certamente non nobili, determinate dalla difesa degli interessi di industrie (peraltro particolarmente inquinanti, come quella petrolifera, o dannose per l’ambiente come quella della carta) i cui prodotti avrebbero potuto essere sostituiti, con notevoli vantaggi per tutti, dai derivati della cannabis.
Basti ricordare la “Plastic Car” di Henry Ford, costruita nel 1941, fatta per il 70% con fibre e componenti vegetali, tra cui la canapa. Una pianta, peraltro, che può essere utilizzata in tanti settori della vita civile (abbigliamento, oggettistica, suppellettili, prodotti per la casa, prodotti per l’igiene, ecc.).
Alla fine, la decisione di procedere, entro la fine dell’anno, alla costituzione pubblica di un’Associazione no profit ad adesione individuale.
Chi volesse partecipare in prima persona al progetto può contattare la LILA (lilacatania@alice.it; tel. 095 551017; ore 17,00/20,00 giorni dispari) che, in questa fase, fungerà esclusivamente da supporto organizzativo.
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Di recente sono stata ad un congresso di pneumologia e – tra le sessioni – ce ne era una dedicata al danno da fumo (di tabacco) e danno da cannabis. Sono uscita estremamente delusa dalla sessione poiché ho costatato che anche chi si occupa di queste questione per professione non riesce ad abbandonare i pregiudizi, spesso anche poco fondati, radicati nella società; durante la discussione si è caduti spesso nel moralismo dimenticando invece di analizzare i dati presentati e le lacune delle ricerche effettuate.
Penso che questo sia uno dei principali motivi (escludendo quelli di natura economica) per cui il progetto dell’uso della cannabis terapeutica stenti a partire in Italia.