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Micron, la produttività licenzia

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“I valori comportamentali di Micron contribuiscono a creare un ambiente in cui tutti i dipendenti possono lavorare in modo proficuo, definendo chiare aspettative su come tutti noi possiamo dare il nostro contributo per il successo della Micron. Se la microelettronica ti appassiona, sei motivato e tenace, ed hai la visione di immaginare al di là del previsto, puoi inviare la tua domanda d’impiego attraverso questo sito.”
Così si presenta sul web l’azienda che in questi giorni, “immaginando al di là del previsto”, sta facendo perdere il sonno ai suoi 128 dipendenti catanesi candidati alla ‘mobilità’, fantasioso eufemismo inventato per non dover pronunciare la parola ‘licenzamento’.
Ma, andiamo con ordine: cosa è Micron? Micron è una multinazionale americana seconda azienda al mondo nel settore delle memorie e quarta in quello dei semiconduttori.
Nel 2010, attraverso un accordo rispetto al quale il Governo italiano si faceva garante del mantenimento dei livelli occupazionali, ha acquisito le risorse e i brevetti dei lavoratori italiani provenienti da Numonyx, un ramo d’azienda della partecipata dello Stato italiano ST Microelectronics, quadruplicando in tal modo il valore patrimoniale e scalando verso l’alto tutte le classifiche di settore.
Produce utili di tutto rispetto, è tutt’altro che in crisi, il titolo in borsa è in ascesa, ha chiuso il bilancio del 2013 con il 120 per cento di profitto. Questa condizione di buona salute è stata sancita dai suoi stessi massimi dirigenti con la distribuzione, quale compenso ed incentivo per l’impegno e gli straordinari risultati ottenuti, delle stock option a tutti i dipendenti, nessuno escluso.
Adesso, però, intende scaricare una parte di questi dipendenti e, dallo scorso anno, ha avviato un programma di riduzione del personale e di delocalizzazione di alcune attività, come lo spostamento di quelle del design center di Catania negli Stati Uniti. Malgrado gli ottimi risultati, straordinari per i tempi che viviamo, l’azienda ha infatti presentato un piano di riduzione delle risorse umane che prevede 420 esuberi, 128 (su 324) dei quali lavorano nella sede di Catania.
Da questi antefatti nasce l’orgia di dichiarazioni e comunicati stampa da parte di sindacati e movimenti politici di colori assortiti.
“Intollerabile e assurdo che un’azienda non in crisi, senza ascoltare le richieste delle organizzazioni sindacali né tantomeno quelle del governo, avvii in modo unilaterale le procedure di mobilità”, comunica a destra l’UGL.
“Non è più sopportabile che le aziende multinazionali approfittino dei contributi statali per incassare denaro pubblico e poi dismettano la loro presenza sul territorio lasciando sul lastrico centinaia di famiglie”, rintocca a sinistra Rifondazione Comunista.
“È necessario far assumere a ST la responsabilità di questi licenziamenti, frutto delle folli politiche industriali praticate a Catania, e costringere l’azienda a riassorbire i lavoratori in esubero”, incalza sempre a sinistra Catania Bene Comune.
“Denunciamo la latitanza della Regione Sicilia, che ha sempre mostrato totale disinteresse per la vicenda, disertando anche l’incontro convocato dal Governo e invitiamo anche il sindaco Bianco a convocare al più presto un tavolo regionale tra le parti sociali, l’azienda, il Comune di Catania e la Regione, affinché siano tutelati e difesi i posti di lavoro dei dipendenti della Micron.”, rincara il M5S.
Entrando nel merito, Maurizio Caserta, già candidato sindaco al Comune di Catania e leader delle neonate ‘Officine Siciliane’, spiega che è quanto meno da ingenui pensare che “un rappresentante di una amministrazione comunale possa bloccare le grandi trasformazioni strutturali che i settori produttivi stanno affrontando nel mondo intero. (…) La questione del lavoro non è una questione di competenza diretta delle amministrazioni locali (…), ma l’azione delle amministrazioni ha enormi effetti indiretti sul mercato del lavoro. L’impresa, piccola, media o grande, crea lavoro se investe. L’investimento ha bisogno di condizioni di convenienza finanziaria, tecnologica, istituzionale, commerciale. L’amministrazione può agire in maniera significativa su alcune di quelle condizioni, dando corso a quelle azioni che promettono di generare la più alta produttività economica e sociale.”
Il fatto è, purtroppo, che non c’è niente di particolarmente nuovo in queste notizie: è il normalissimo rapporto fatto di arroganza e prepotenza che le multinazionali intrattengono con i singoli Stati e con i lavoratori (un male necessario, come li definiva un alto dirigente di una delle principali multinazionali del petrolio).
Il caso mostra invece, se ce ne fosse bisogno, la fallacia delle politiche liberiste ormai condivise dalla “sinistra” e della demolizione dello Statuto dei Lavoratori, per fare aumentare l’occupazione (!) ed indurre/incentivare le aziende ad assumere.
Come se le aziende dovessero assumere per un qualche obbligo morale e non solo se proprio non se ne può fare a meno per le necessità produttive, così come è scontato che un lavoratore “non protetto” si faccia sfruttare di più senza protestare: ergo, senza lo Statuto l’occupazione diminuisce, non aumenta. Sembra una ovvietà ma si è riusciti a convincere la gente del contrario (ed anche buona parte dei sindacati sono, da alcuni decenni, vessilliferi variamente mascherati di questa corrente di pensiero).
Sostenere, come fanno tutti, che l’industria è in forte attivo e quindi non deve licenziare, è una semplificazione da sprovveduti: se l’azienda può mantenere gli stessi livelli di produzione e di qualità con metà del personale, non si capisce perché non dovrebbe farlo. Aumenterà i suoi profitti e si rafforzerà sul mercato. Probabilmente ha investito per migliorare automazione e controllo, aumentando per tale via la famosa “produttività“, ciò che si chiede incessantemente di fare alle industrie italiane.
Solo che la Confindustria, e non solo, da questo orecchio non ci sente e pensa alla produttività solo nel senso di aumentare il tasso di sfruttamento degli operai (riduzione dei salari, precarizzazione spinta all’estremo, azzeramento delle stato sociale) e il trasferimento di costi allo Stato e sui cittadini (cassa integrazione in deroga, devastazione dell’ambiente).
Non vorremmo essere fraintesi: siamo perfettamente consapevoli del dramma di chi perde il lavoro a 40-50 anni, con una famiglia monoreddito sulle spalle, ma non saranno queste scorciatoie di corto respiro che faranno diminuire la crescente disoccupazione.

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