Torniamo sui sistemi di valutazione. E’ proprio vero che quello adottato per le università americane possa rappresentare un modello “quasi perfetto” da imitare? O il motivo per cui queste sono oggi all’avanguardia in molti settori, soprattutto della ricerca, è un altro? Abbiamo chiesto un parere a Francesco Coniglione, professore ordinario di Storia della filosofia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Catania, che da tempo si occupa del problema. Eccolo
L’università italiana sta entrando in un momento decisivo della sua storia: per la prima volta viene avviata con l’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) uno screening sistematico e completo della qualità delle università italiane. Questo processo dovrebbe portare, quando sarà completato (cioè nel 2015), a distribuire a regime un fondo premiale di circa 832 milioni, corrispondente a circa il 20% dell’attuale (2011) Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), destinato a circa 54 università statali giudicate per esso ammissibili, che serve per tutti i loro fabbisogni, compresi gli stipendi del personale docente e non docente. Già in un precedente articolo su Argo sono state delineati in maniera sintetica ma esaustiva i caratteri di questa valutazione effettuata dall’ANVUR, mettendone anche in luce gli aspetti discutibili e critici.
Ma come ci si regola in merito negli Stati Uniti? Questa domanda sorge naturale, visto che spesso tutto quanto avviene in questo paese, specie nel campo universitario, viene additato a modello da imitare. Ebbene, ranking e valutazioni sono negli Stati Uniti effettuate da numerosi organismi (circa 9 sono i più importanti). Ognuno di questi non solo misura aspetti diversi delle università, ma utilizza anche metodologie del tutto eterogenee.
Si va dall’utilizzo di parametri oggettivi come il tipo di titoli rilasciati, i curricula seguiti e la loro “forza”, il fatto di impartire certe discipline chiave, i finanziamenti, le percentuali di laureati, la reputazione conseguita presso un pubblico selezionato, alle pubblicazioni, citazioni, capacità di attrarre finanziamenti e così via. Dei vari ranking così elaborati, il solo che concentri il proprio focus sulla qualità della ricerca è Faculty Scholarly Productivity Index (FSPI). V’è poi il più influente e celebre, l’U.S. News & World Report College and University rankings, che usa parametri misti e il cui ultimo aggiornamento è del 2012 con ben 1.600 schools valutate.
Dall’esame dei vari processi di valutazione si evince innanzi tutto che non esiste negli USA un sistema nazionale di valutazione della qualità scientifica delle università, quale quello che dovrebbe essere in Italia l’ANVUR, bensì un sistema di accreditamento volontario su base regionale che rispetta solo alcuni standard definiti da un organismo federale e da una istituzione no-profit. I finanziamenti delle università e della ricerca non dipendono per nulla dalle valutazioni qualitative effettuate dagli organismi di ranking, i quali servono solo a dare un orientamento agli studenti e di conseguenza anche ai finanziatori privati e in un certo qual modo dare un peso alla laurea conseguita sul mercato delle professioni e degli impieghi.
Eppure, sebbene questo sistema non abbia la funzione costrittiva e il carattere centralistico e dirigistico assegnato all’ANVUR (per non citare tutti gli altri suoi limiti, molti dei quali evidenziati nel sito ROARS ) nel 2007 è sorto negli Stati Uniti un movimento di protesta (il “2007 movement”), per protestare contro il più noto e influente ranking, l’U.S. News & World Report, e in particolare contro la pratica di cambiare continuamente i criteri e di non adottare chiare e condivise procedure. Attualmente circa 80 università hanno aderito a questo movimento, decidendo di non partecipare a tale valutazione, e un acceso dibattito è ancora in corso sui media, sicché tale moto di protesta sembra prendere forza.
Cosa ha a che fare questo sistema con quanto sta tentando di fare l’ANVUR in Italia? Poco o nulla. E con l’ANVUR si sta mettendo in piedi un meccanismo che dovrebbe giungere entro il 2015 alla valutazione delle strutture per la distribuzione a regime di un somma premiale risibile rispetto a quello che due medie università americane ricevono dal governo federale solo per la ricerca scientifica. Per fare un esempio molto semplice, due medie università che ben conosco e che apprezzo per la qualità della ricerca e delle strutture (incomparabili con quelle di qualsiasi università italiana), quelle del Nevada (Reno) e la Mississippi State University (MSU), ricevono di finanziamenti solo federali per la ricerca scientifica rispettivamente 55 e 79 milioni di euro.
Per dare un’idea dell’ordine di grandezze, l’università di Catania, nella quale lavoro, ha iscritto nel proprio bilancio di previsione del 2012 la somma di 2,5 ml per ricerca scientifica (progetti nazionali); cioè circa 22 volte meno dell’università del Nevada e circa 31 volte della MSU. Eppure in uno di ranking che misura solo la qualità della ricerca scientifica – compilato dall’Higher Education Evaluation & Accreditation Council of Taiwan – Catania occupa il 433° posto, l’università del Nevada il 441° e la MSU non entra nemmeno tra le prime 500.
Un miracolo del genio siculo? No, ovviamente, perché questi confronti potrebbero essere moltiplicati ed estesi per decine di altre università. E dopo tale comparazione sorgerebbe spontanea la domanda: ma per quale miracolo sarà mai possibile che le università italiane, nei ranking internazionali sulla qualità della ricerca scientifica (e non quelli generici, che spesso vengono citati per sostenere l’arretratezza del sistema accademico italiano), ottengono assai spesso posizioni superiori a università americane che ricevono molti più fondi di loro? Un elemento di riflessione per il nostro Ministro e per i denigratori dell’università italiana.
Ma questo piccolo esempio sta anche a significare che tutte e 54 circa le università italiane che si dovranno spartire la quota premiale – dopo il tormentato e controverso processo avviato dall’ANVUR – riceveranno in tutto circa 6 volte di più di quanto prendono solo per ricerca le due università americane prima citate. Se è questa la situazione, allora sarebbe opportuno interrogarsi sul significato di un processo così complesso (che nelle metodologie e nel suo obiettivo mi pare abbia poche rispondenze nel resto del mondo) e con risultati tanto esigui.
La conoscenza della realtà americana, che spesso si addita ad esempio, non deve portare alla imitazione di posticce e per lo più inventate ricette, utili solo a confermare un mero pregiudizio ideologico, ma ad imparare da quanto effettivamente v’è di positivo, a cominciare dalla qualità e dalla quantità del finanziamento della ricerca scientifica. Bisogna forse aspettare anche in Italia un “2012 movement” per svegliarsi e addivenire a più sensate e condivise politiche universitarie e pratiche di valutazione?
Francesco Coniglione
Una versione più ampia di questo articolo è stata pubblicata su www.roars.it
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La valutazione universitaria è un esempio tipico di come in Italia ogni tanto si prende di mira un problema (reale), si guardano soluzioni pensate (giustamente) altrove e applicate in contesti del tutto diversi dal nostro, e si scopiazzano in parte (a volte proprio “a saltare” come fanno certi studenti copiando da Wikipedia) metodi che poi si rivelano inapplicabili o deleteri se innestati in un sistema che non cambia le proprie regole fondamentali. Anzichè ragionarci dall’interno e sperimentare le modifiche per verificarne l’efficacia prima di fare per legge cambiamenti “epocali”, che poi i ministri di turno, o chi per loro, sbandierano a fini propagandistici.
Ci sono nodi fondamentali nell’Università, che nessuno tocca: il principale è la (vera) repsonsabilizzazione di tutti gli attori del sistema, che i criteri di valutazione ANVUR non toccano minimamente.
E la responsabilità è vera e motivante quando minaccia di toccare le tasche dei singoli docenti che fanno parte della struttura dove si assume una decisione “responsabile”, ad esempio in ordine alle assunzioni di personale. Se si stabilisse che una parte dello stipendio, come indennità aggiuntiva, è variabile in base alla valutazione scientifica e didattica delle strutture (ben vengano a questo punto criteri predefiniti purchè semplici e chiari), a nessuno converrebbe assumere asini o fannulloni solo perché vantano altri “meriti” non proprio scientifici o di competenza didattica, né converrebbe consentire che altri lo facciano. Si creerebbe un controllo dal basso, e si assicurerebbe l’interesse di tutti a che il proprio ateneo regoli le proprie finanze, non accumuli passivi, non finisca in una bancarotta che si ripercuoterebbe sui propri stipendi. Quali migliori motivazioni ad un controllo effettivo e continuo sugli amministratori, affinché nessuno, cercando tornaconti di parte, metta in pericolo il buon andamento del collettivo? Come nella migliore cooperazione, dove tutti i soci sentono di avere (e possono realmente avere) una responsabilità nel funzionamento della struttura comune, perché il buon funzionamento è interesse di tutti e di ciascuno.
Ma quanti hanno interesse ad un cambiamento così rischioso? meglio dunque affidare a qualche esperto la quantificazione di criteri complicati e arzigogolati che poi nessuno applicherà o che avranno tante deroghe da farli risultare inutili, e comunque non “rischiosi” per nessuno. Come siamo abituati a fare da secoli nel Bel Paese.