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Dislessia e altri disturbi di apprendimento, la sfida di valorizzare e includere

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Come mai abbiamo oggi un alto numero di ragazzi con disturbi di apprendimento, nella lettura, nella scrittura, nel calcolo? Ce ne sono davvero più che in passato, o eravamo noi a non vederli, a non riconoscerli? Noi insegnanti, che li bollavamo come pigri, svogliati, o addirittura stupidi. E, così facendo, li mettevamo fuori gioco, a volte fino all’abbandono scolastico.

Il rischio è che i docenti possano comportarsi così anche adesso, perché non conoscono il fenomeno e/o non sanno come affrontarlo. Parlarne è certamente il primo passo, parlarne con specialisti che se ne occupano e possono offrire elementi di conoscenza e metodologie di intervento.

Un convegno su “Individuazione e trattamento dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento dall’infanzia all’età adulta” si è svolto martedì 23 gennaio nell’aula magna, strapiena, dell’Istituto Onnicomprensivo Angelo Musco, proprio nel giorno in cui ricorreva il primo anniversario della morte della preside Cristina Cascio, che ha fatto di quest’istituto di periferia un’eccellenza cittadina.

Organizzato dal Centro Aura di Gravina insieme all’Associazione Italiana Dislessia (AID), all’ANDIS (Associazione Nazionale Dirigenti Scolatici) e all’Oasi di Troina, riconosciuta come istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) in cui si svolgono attività di ricerca clinica, il convegno ha avuto come moderatore Mauro Mangano, attuale dirigente del Musco e presidente provinciale dell’ANDIS.

I relatori, pedagogisti, psicologi, neuropsichiatri, terapisti, provenienti da centri che sono in prima fila nello studio dei disturbi dell’apprendimento, sono andati al cuore del problema, esponendo i risultati delle loro ricerche e fornendo indicazioni per l’individuazione precoce e per il trattamento di chi soffre di questi disturbi, con o senza co-morbilità con alcune patologie.

Tantissimi gli spunti emersi, che non sono ancora una risposta piena a chi si trova ad affrontare le situazioni più difficili, ma contengono indicazioni preziose per camminare nella direzione giusta.

Prendiamo il disturbo forse più frequente o più noto, la dislessia. “Non è una patologia” spiegano concordemente i relatori, “i dislessici sono ragazzi intelligenti”. Spesso sono anche creativi perché usano maggiormente l’emisfero destro del cervello, tanto che qualcuno ha parlato di “dono della dislessia”. Hanno un quoziente intellettivo normale, a volte alto, ma un modo diverso di “processare le informazioni”, di interpretare la realtà, ecco perché è opportuno parlare di ‘neurodiversità’.

Lo ribadiscono gli specialisti dell’Oasi di Troina, dove gli studi sul tema proseguono da anni e abbracciano anche il mondo degli adulti con dislessia.

Studi che dimostrano come la neurodiveristà della dislessia permanga nel tempo. Trattamenti individuali possono portare ad un miglioramento per il soggetto, ma il gap rispetto a chi non è dislessico permane. Questo non impedisce, tuttavia, a chi è portatore di questo disturbo di raggiungere obiettivi importanti come la laurea o lo svolgimento di una professione impegnativa. Tanto più che, come hanno puntualizzato i relatori, nella lingua italiana (trasparente, fonetica) il disturbo emerge più che altro nella velocità di scrittura e lettura.

Se i dati statistici ci dicono che, nel Sud Italia, le diagnosi sono ancora poche, il motivo è da ricercarsi soprattutto nella diffidenza delle famiglie verso la certificazione, che viene considerata ancora come un marchio quasi infamante.

Da qui la necessità di continuare a parlarne, raggiungendo insegnanti e famiglie, soprattutto nei luoghi più isolati, affinché si acquisisca la consapevolezza che la certificazione non è uno stigma né un ostacolo per la prosecuzione degli studi. Anzi permette al ragazzo di esercitare alcuni diritti garantiti dalla legge, come la possibilità di usufruire di prove adattate al disturbo o di utilizzare alcuni supporti. Nelle classi in cui questi diritti sono garantiti, accade talvolta che siano i compagni a protestare per l’utilizzo di strumenti compensativi da parte di chi ha ottenuto la certificazione.

Situazioni che confermano la necessità di una sensibilizzazione diffusa che raggiunga tutta la società e modifichi il modo stesso di guardare al problema.

Anche i docenti vanno sensibilizzati e opportunamente formati, perché la consapevolezza del problema eviterà che esprimano giudizi negativi o assumano atteggiamenti escludenti che possono avere gravi conseguenze sui bambini/ragazzi che hanno disturbi di apprendimento.

A sette/otto anni si forma nel bambino l’immagine di sé, ci dicono gli specialisti. Se il bambino si accorge di avere delle difficoltà che gli impediscono di soddisfare le attese delle persone a cui tiene (i genitori, gli insegnanti), o – ancor peggio – se viene giudicato svogliato o stupido nonostante si impegni, svilupperà una immagine negativa di sé. Maturerà, quindi, un senso di rabbia, verso se stesso e verso gli altri, che sarà interiorizzata come ansia, senso di colpa, depressione, oppure troverà uno sfogo esterno in atteggiamenti provocatori o aggressivi.

L’ansia – ad esempio – come è stato ripetuto durante il convegno, e anche dimostrato con immagini, determina non solo una riduzione dell’apprendimento ma anche, se prolungata, un danno neurologico irreversibile, con la morte di alcune cellule nervose.

Una diagnosi precoce, oltre a consentire l’impostazione di un trattamento riabilitativo, permette di ridurre il disagio psicologico. Ed è possibile farla a partire dagli indicatori ‘predittivi’ (ritardo nel linguaggio, difficoltà a memorizzare elementi sequenziali, ma anche familiarità) che si possono individuare sin dalla scuola dell’infanzia.

Ci sono anche fattori di rischio legati ai contesti sociali e culturali svantaggiati. In questi contesti deprivati diventa più difficile anche l’identificazione del disturbo di apprendimento, che si mescola ad altri bisogni educativi speciali (BES, un acrononimo con cui l’istituzione scolastica cerca di censire e disciplinare la diversità degli alunni).

Altra questione è quella della co-occorrenza con alcune patologie, a cominciare dalla disabilità intellettiva. Co-occorrenza o co-morbilità, di cui solo di recente la ricerca si sta occupando.

Ogni ragazzo, d’altra parte, è diverso dall’altro, così come ogni persona è diversa dalle altre. Anche tra i ragazzi ai quali viene diagnosticato un disturbo dell’apprendimento ci sono differenze, non solo di gravità del disturbo stesso, ma anche a parità di diagnosi.

E questo per gli insegnanti è un richiamo forte alla necessità di individualizzare l’insegnamento, una conferma che non esiste un metodo didattico valido sempre e con tutti i ragazzi. A prescindere dai disturbi di apprendimento.

Gli alunni vanno osservati “per individuare in ognuno le caratteristiche speciali, per valorizzare le differenze, che sono differenze orizzontali, non disposte secondo una gerarchia” ha detto Mauro Mangano in apertura dei lavori.

La stessa sensibilità e l’attenzione che deve essere spesa per i ragazzi che hanno un disturbo dell’apprendimento, va spesa per tutti. Con un di più nei casi particolarmente difficili, che possono essere tali per problemi di carattere personale, familiare, ambientale.

Un richiamo importante che, per non rimanere astratto, ha bisogno di alcune condizioni che – aggiungiamo noi – richiedono interventi da parte del governo e del ministero.

Ci riferiamo soprattutto al numero di alunni per classe, quasi sempre troppo alto perché sia possibile realizzare un insegnamento realmente individualizzato. E poi la formazione dei docenti, che dovrebbe essere seria, reale e continua, tale da riguardare non solo i DSA o i BES, ma da indurre gli insegnanti a rinnovare la didattica in modo che la diversità di ognuno trovi spazio anche laddove non sia visibile alcuna certificazione.

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