Stefano Fassina, la politica e il mestiere della sinistra

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Ha ancora senso la politica, in particolare la politica di sinistra? Cosa significa per una forza politica, ma anche per un semplice cittadino, dichiararsi di sinistra ed essere coerente con quanto dichiarato? Con gli ultimi governi, la politica, lo ammettono in molti, è stata fatta con il “pilota automatico”, si è trasformata, cioè, in larga parte in mera amministrazione ovvero in semplice attuazione di quanto disposto in sede europea o internazionale.

Stefano Fassina, di formazione economista (laureato alla Bocconi), è stato dal 2000 al 2005 al Fondo monetario, già esponente della sinistra (Pci, PdS, DS e poi PD), quindi deputato, responsabile dell’Economia e del Lavoro del PD al tempo della Segreteria di Bersani, nonché ViceMinistro dell’Economia nel governo Letta. In un suo recente libro, Il mestiere della sinistra nel ritorno della politica, Castelvecchi, 2022, prospetta una risposta assai convincente alla domanda contenuta nel titolo.

Come sottolinea Mario Tronti nella postafazione, questo libro andrebbe letto con la matita in mano, in un momento assai difficile per la Sinistra. Valga per tutti il dibattito all’interno del PD che si trascina in una lunga fase congressuale, in assenza di un vero e proprio Congresso, con 4 candidati alle Primarie, nessuno dei quali, al di là di un approccio differente ai problemi, riesce ad esprimere con nettezza una linea politica ben caratterizzata. Il merito delle riflessioni di Fassina è quello di denunciare innanzitutto la deriva culturale, prima ancora che politica, della sinistra italiana (e non solo) negli ultimi decenni. Al centro della sua riflessione stanno i problemi fondamentali, articolati in 8 memo di analisi e proposte, non veri e propri capitoli, che dovrebbero caratterizzare l’essere di sinistra e quindi dar luogo ad una nuova politica coerente.

Il lavoro e la sua svalorizzazione

L’epicentro delle contraddizioni è il lavoro, dipendente o formalmente autonomo, posto al centro della riflessione. Ed alla svalorizzazione del lavoro, particolarmente di quello subordinato, l’autore dedica quasi metà del libro. La crisi del lavoro dipendente tocca buona parte del ceto medio, come del resto quello apparentemente autonomo, che è molto spesso lavoro dipendente mascherato. 

A partire dagli anni ’80 inizia a decrescere la quota del reddito da lavoro sul prodotto annuo (Piketty, Il capitale nel XXI secolo). Si verifica una caduta del 10% sul totale dei redditi da attività economiche (dati INPS), con un aumento vertiginoso delle diseguaglianze salariali. A fronte di ciò, rileva Fassina, siamo l’unico paese in Europa dove si è verificata una riduzione delle retribuzioni in termini reali, a fronte di un aumento del 30% in Francia e Germania.

In un rapporto sui lavoratori poveri in Italia il Ministero del lavoro indica che il 25% dei lavoratori del settore privato ha un reddito sotto la soglia della povertà. Si aggiunga anche il blocco della mobilità sociale e la crescita esponenziale degli incidenti, spesso mortali, sul lavoro, in merito ai quali l’Italia riveste un triste primato in Europa. Fenomeni – osserva Fassina – davanti ai quali tutta la classe politica mostra un totale disinteresse, unito ad un rifiuto di volerne comprendere le cause.

Tutto ciò non è stato esclusivamente la conseguenza di fenomeni oggettivi quali la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica: l’inizio della svalorizzazione del lavoro – dice Fassina – è avvenuto a seguito di precise scelte politiche, ispirate all’ideologia mercatistica, il neo liberismo, fin dall’inizio della stipula dei Trattati sulle Comunità europee.

L’autore mette ben in rilievo il ruolo delle quattro libertà di circolazione dell’Unione europea (di merci, capitali, lavoratori e servizi). Liberalizzazioni che probabilmente erano inevitabili, ma che non sono state accompagnate né in sede europea, né nazionale, da adeguati contrappesi che almeno le adeguassero a quanto previsto dalla Costituzione italiana (artt. 35, 36, 38, 41, ecc.). E tuttavia non hanno avuto effetti particolarmente distorsivi del mercato del lavoro fintanto che l’Europa ha coinciso con i sei paesi fondatori, aventi un livello di sviluppo economico abbastanza omogeneo.

I problemi sono venuti al pettine a seguito dell’allargamento indiscriminato, particolarmente ai paesi dell’Est, aventi un differente grado di sviluppo economico e soprattutto un rilevante divario del prodotto interno lordo, e quindi del livello dei prezzi, rispetto a quello del nostro Paese. A quel punto le liberalizzazioni hanno prodotto delocalizzazioni produttive spesso selvagge, con accentuazione della disoccupazione, immigrazioni incontrollate dai nuovi Paesi dell’Est, con gravi alterazioni del mercato del lavoro, e con l’abbassamento se non lo svuotamento delle garanzie per i lavoratori subordinati e, in generale, la svalorizzazione del lavoro dipendente: effetto dumping sociale, vera e propria concorrenza sleale senza che lo Stato sia intervenuto per porre un argine.

A tale proposito Fassina evidenzia la c.d. Direttiva Bolkenstein, che consente ad un imprenditore di servizi, il quale intenda insediarsi in un altro paese europeo, di rispettare esclusivamente le regole del paese d’origine, in deroga alla normativa del Paese in cui si svolge l’attività. Anche se successivamente la portata di tale direttiva è stata parzialmente ridimensionata, resta in vigore la deroga relativamente al diritto di sciopero, alle condizioni di assunzione e di licenziamento e agli oneri previdenziali.

La rappresentanza del lavoro subordinato (dipendente)

Ma la crisi della politica non riguarda soltanto gli indirizzi politici. Prima ancora si pone la questione della rappresentanza politica del lavoro (e dei lavoratori), in Italia e in Europa. I dati che riporta Fassina sono a dir poco sconfortanti.

In particolare i dati IPSOS sulla rappresentatività dei diversi partiti nell’ambito del mondo del lavoro mostrano che soltanto l’8% dell’elettorato del PD (ma anche delle altre forze di sinistra) è composto da lavoratori subordinati (operai ed affini), mentre oltre il 25% è composto da imprenditori professionisti e dirigenti. I mondo del lavoro costituisce, invece, il 28% dell’elettorato della Lega di Salvini e il 16% del Movimento 5stelle. Per non parlare della gran massa di lavoratori e disoccupati, non facilmente quantificabile, che neppure si recano a votare. Fra i disoccupati non va molto meglio per i partiti di sinistra. “Tra le fasce sociali più in difficoltà – oltre 10 milioni di persone – originariamente il suo primario riferimento, il principale partito della sinistra è residuale o comunque staccato dalla destra e dal movimento grillino”.

C’è stata, dice Fassina, una duplice reazione da parte dei dirigenti della sinistra in Italia. Una prima, di rassegnazione: l’ammissione di essere ormai altro in termini di soggetti e di insediamento sociale, anche perché le questioni economiche e sociali, con la globalizzazione e le regole dell’Unione europea sarebbero precluse alla politica. Non resta allora altro che reagire con la ripresa dei temi dell’antifascismo, delle garanzie dei LGBTQ e della difesa di tutti i diritti, compresi quelli dei migranti, ma non di quelli dei lavoratori. Ritenendo, inoltre, anche con una punta di orgoglio – non si capisce su quale fondamento – di essere i migliori quanto a classe dirigente, indispensabili negli equilibri complessivi, gli unici “decenti” a rappresentare l’Italia nei consessi internazionali.

L’altra reazione della sinistra (o piuttosto di una sua parte) è stata quella del tentativo di riguadagnare lo spazio sociale perduto, ma “nell’assoluta inconsapevolezza del cambio di paradigma di cultura politica, di interessi economici da coltivare, di priorità di policy, di linguaggio, necessari per la controffensiva”. Sinistre cosiddette “radicali o di opposizione, ormai quasi inesistenti, accartocciate – dice Fassina – nelle loro microidentità, indisponibili ad una politica di alleanze, tantomeno per arrivare alla rappresentanza istituzionale di città, Regioni, Stato”.

La rappresentanza del mondo del lavoro, dice Fassina, ricade quasi esclusivamente sulle spalle del Sindacato. Ma la rappresentanza politica del mondo del lavoro è – secondo Fassina – una missione della Sinistra. Un partito di sinistra deve “rappresentare” e non solo “interpretare” la linea della centralità del lavoro. Ciò pone la questione della rappresentanza sociale (la presenza di lavoratori nel corpo del Partito, ai vari livelli) e anche di quella territoriale (le sezioni o i circoli territoriali). L’abbandono delle sezioni territoriali è stata una scelta devastante per la credibilità della sinistra che così ha regalato ceti sociali importanti alla destra, o all’astensionismo, finendo con il rimanere il partito delle ZTL (zone a traffico limitato, cioè dei centri storici).

La mancata rappresentanza delle periferie, abbandonate dai partiti di sinistra (con la esclusione dei 5stelle, non considerati di Sinistra) e lasciate in balìa della retorica della destra, che ha offerto comunque protezione sociale e identitaria, sia pure con chiusure nazionaliste e la criminalizzazione dei migranti, ha fatto sì – osserva Fassina – che la Sinistra non sia riuscita in alcun modo né a rappresentare, né ad interpretare il disagio sociale. A fronte di domande di protezione sociale e identitaria, la sinistra ha spesso risposto con grande incomprensione, con un atteggiamenti spesso di “suprematismo morale” e autoconsolatorie etichettature di “fascismo” o razzismo nei confronti della destra.

Ccome stare nell’Unione europea e nella NATO

L’autore critica sia le posizioni dei sovranisti, che vorrebbero al più un’Unione delle Nazioni alla De Gaulle (purtroppo dimenticando che ciò comporterebbe il ritorno del voto all’unanimità, in Consiglio e al Parlamento europeo, e quindi lasciando un potere di veto a ciascuno dei 27 Stati – membro), sia quelle dei c.d. federalisti che sognano gli Stati Uniti d’Europa (di fatto, uno Stato federale, con il voto a maggioranza in tutte le deliberazioni). In questo quadro Fassina fa l’elogio dei “sovranisti di sinistra”, come Mélenchon in Francia, Corbyn in Gran Bretagna e Varoufakis in Grecia.

E tuttavia la proposta in positivo di Fassina riguardante, in particolare la c.d. demoicraty, ovvero democrazia dei popoli, richiederebbe un qualche approfondimento. Quanto poi alla parola d’ordine “per un protezionismo politico, sociale e ambientale”, pur risultando, nella sostanza, largamente condivisibile, sarebbe auspicabile utilizzare altre espressioni: garanzia, tutela, anche protezione, piuttosto che ‘protezionismo’. Termine che sembra evocare nazionalismo, autarchia economica, se non addirittura guerre commerciali.

Sulla Nato la posizione di Fassina è chiara, sintetizzata dal titolo dato al meme relativo: “Atlantismo adulto e Realpolitik”. E’ netta, in particolare, la scelta di campo a favore dell’Ucraina aggredita, e la conseguente condanna della Russia come paese invasore di uno Stato sovrano in spregio a tutte le norme del diritto internazionale. Ma, sul “come stare a fianco dell’Ucraina”, Fassina critica i governi dell’Unione europea che sarebbero stati tutti a rimorchio degli USA, mentre l’interesse nazionale dei singoli stati e l’interesse della stessa Unione sarebbe stato quello di arrivare al più presto a una tregua e quindi ad una pace sostenibile, a salvaguardia della sovranità di un’Ucraina neutrale. Gli Stati europei, unitamente agli USA, hanno invece messo in atto scelte molto pericolose, come quelle di inviare a Kiev armi sempre più sofisticate, allo scopo di far impantanare Putin; accompagnate da parole irresponsabili, come quelle di Biden e di Boris Johnson; ma soprattutto da omissioni imperdonabili: assenza di un’iniziativa diplomatica diretta da parte degli USA e particolarmente dell’Unione europea.

Purtroppo, osserva Fassina, il centrosinistra, in tutt’Europa, ma in Italia con maggiore zelo, ha seguito pedissequamente il solco tracciato da Washington, senza neppure prestare minima attenzione ad una certa dose di realpolitik. Essa ha riproposto il richiamo strumentale alla Resistenza e ad Hitler, rimuovendo il dato storico della “dottrina Monroe” sull’altro versante dell’Atlantico. Anche perché le sfere d’influenza esistono ancora, soprattutto per le grandi Potenze e nelle realtà delle relazioni internazionali non si può prescindere dai rapporti di forza dove “uno non vale uno, nonostante la retorica dei popoli liberi e sovrani”.

Di questo libro, che tutti dovremmo leggere, si è discusso venerdì 13 febbraio in un incontro organizzato dall’Associazione Volere la luna, Sezione di Catania, nel salone della Camera del lavoro di via Crociferi.

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