Un’arte respirata a casa, appresa dal nonno, dai genitori, arricchita dai colloqui con Tony Sollima, grande fotografo amatoriale, marito della sorella, da cui “ho appreso il rigore dell’inquadratura e il senso etico del fotografare”.
Inizia così l’intervista rilasciata dalla fotografa Alberta Dionisi, da tempo amica di Argo, a Marco Salanitri e pubblicata su Heyzine Flipbooks. (link)
E prosegue ricostruendo un percorso durato una vita, tra mostre, a partire dalla prima a Bologna nel 2008, e riconoscimenti vari, sempre sperimentando, in un rapporto esclusivo e “appagante” con l’obiettivo della propria macchina.
Con l’unica eccezione della pandemia, “durante la quale non ho scattato altro che mezza dozzina di foto, che non ho fatto vedere a nessuno”. “Per me – prosegue – fotografare è sperare” e durante la pandemia ha prevalso la perdita del vivere “che coglievo intorno a me”, un silenzio diverso da quello che dice di amare e di cercare, un silenzio di sconfitta, di morte.
C’è molta partecipazione emotiva nelle risposte di Dionisi, che racconta quanto sia emozionante trovare riscontro nel pubblico, constatare di averne saputo suscitare i sentimenti condividendo con gli altri una parte di sé. E la verifica del carattere “salvifico” di un linguaggio di comunicazione “che travalica la parola”.
Fotografare per Dionisi è un bisogno, il bisogno di riconoscere dentro l’obiettivo quello che è parte del proprio mondo. Con un rammarico, per far circolare le proprie immagini è necessario entrare in un circuito di tipo commerciale, pagare spazi, pubblicità, intermediazione, facendo così dell’arte, e quindi della cultura e dell’educazione, un prodotto di consumo.
Che si tratti consapevolmente di arte lo conferma lei stessa quando, alla richiesta su quali siano i suoi maestri e modelli, cita prontamente i pittori del rinascimento fiammingo, per “i colori vividi e precisi, la scomposizione degli spazi in cui grandi superfici” ricche di dettagli contengono “figure umane piccole e spesso riprese in straordinarie scene corali”, come in Bruegel il vecchio. Non solo, cita anche “la luce e la forza vitale delle ombre” nel Georges De La Tour più maturo e l’intensità abbagliante della luce in William Turner.
Grandi pittori, dunque, dei quali apprezza il ruolo attribuito alla luce e alle ombre, i cui giochi sono fondamentali anche nelle sue foto.
Non a caso parla della fotografia come “figlia del tempo e della luce”, quando consiglia ai giovani, che vogliono apprendere il mestiere, di non ricercare solo le abilità tecniche ma di provare e riprovare, “fotografare e ancora fotografare”, senza fretta, perché – in quei momenti – “la fretta non ci appartiene più e l’unico tempo che esiste è quello che regola la luce”. Tanto più che la fotografia, a suo modo di vedere, è “essa stessa atto di trasformazione del mondo”.
Non manca tuttavia di citare i maestri della fotografia che predilige maggiormente, anche se “sono arrivati dopo, quando fotografavo da tempo”: la delicata poetica di Luigi Ghirri, lo stupore del mondo di André Kertész, la passione intensa di Tina Modotti.
Non è catanese Alberta Dionisi, è nata a Roma e ha sangue misto portoghese, ma a Catania risiede da sempre, per scelta, perché ama questa città in modo intenso, nonostante tutte le sue contraddizioni.
Ne ama i colori, “la luce che sottolinea i contrasti, le sue prospettive tipiche, la sua vivacità naturale, e il gusto spiccato per la teatralità e l’ironia dei suoi abitanti”. Afferma di essere affascinata dalle sue contraddzione, dalle sfaccettature con cui si mostra diversa “a seconda dell’umore, dei quartieri, delle stagioni o delle situazioni prevalenti”, una città che sa essere socievole e accogliente, egoista e insensibile, ricca di profumi e insieme degradata e sporca.
Una città che, proprio in quanto la si ama, “ci si dispera perché la si vorrebbe migliore”.
Ma nelle parole di Dionisi c’è una nota di amarezza quando afferma che l’obiettivo di migliorarla è sempre più difficile da raggiungere. Cattive amministrazioni, coscienza civica e senso di appartenenza mai abbastanza sollecitati, rendono oggi “inguardabili” scorci da lei fotografati dieci anni fa. “Prospettive sporche”, come le chiama, che non rendono ormai possibile una visione poetica. Eppure non demorde Dionisi, continua a cercare “la bellissima città nascosta che resiste ancora”.
Forse per questo non ha mai pensato di andar via, neanche per dare maggiore visibilità alla sua produzione. “Sarebbe un gettare la spugna” dice. Ma c’è un altro motivo, che ci svela la intensa umanità di quest’artista, “io sono una mamma, sono i figli che un giorno vanno via, le mamme devono segnare il loro ritorno a casa”.