Al processo che vede il direttore-editore imputato di concorso esterno in associazione mafiosa testimoniano due soci in affari di Ciancio, Giovanni Vizzini e Vincenzo Viola. Abbiamo già visto come il primo abbia attibuito ad un colpo di fortuna i soldi da lui guadagnati nell’affare Porte di Catania.
Viola stupisce, invece, i giudici attribuendo ad “un autentico miracolo” il voto con cui il consiglio comunale trasformò in edificabili i terreni agricoli dell’editore. Con questo articolo di Antonio Fisichella cerchiamo di capire di che materia è fatto quel miracolo.
La testimonianza di Vincenzo Viola imprime al processo Ciancio un salto di qualità. Viola è infatti un personaggio di estremo interesse, uomo dai diversi talenti e dai molteplici interessi.
Non è un comprimario, ma una testa pensante, imprescindibile punto di riferimento di Mario Ciancio nella realizzazione del centro commerciale Porte di Catania e dell’Outlet di Agira. Tra i due negli anni si consoliderà un rapporto strettissimo che, come dirà Viola in aula, andrà “ben oltre la semplice amicizia”.
Ma al di là della corrispondenza di amorosi sensi che si è instaurata tra i due, la domanda da porsi è la seguente: Chi è Vincenzo Viola? E soprattutto come giunge alla corte del direttore?
Viola è un frutto genuino delle nostre élite, di esse esprime una estrema capacità di muoversi nella terra di mezzo tra amministrazione pubblica e politica, salotti buoni ed economia. La sua carriera è lì a dimostrarlo: “nasce” negli anni settanta come dirigente della Regione Sicilia; nel ’95 conquista, con la lista guidata da Mariotto Segni, un seggio a Strasburgo; a partire dal 2001 è nominato dal governo Cuffaro membro del consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia.
Contestualmente decide di mettersi in affari e crea una propria società di consulenza. “Attraverso i miei soci vengo a sapere dell’interesse di grandi società ad investire a Catania nella realizzazione di centri commerciali”, dirà al processo. E’ a questo punto che le strade di Viola e Ciancio si incrociano. Se a Catania si parla di affari, e tanto più di affari grossi, “passare” da Mario Ciancio è obbligatorio.
La testimonianza dell’ex funzionario della Regione conferma quanto emerso nelle precedenti udienze intorno alla nascita dei due centri commerciali. A partire dalla singolare composizione del consiglio di amministrazione della Icom, la società che dà vita a Porte di Catania, i cui membri non apportano né capitali, né competenze ma relazioni, parentele e appartenenze.
Una sintesi fulminante della pesca fortunata cui partecipano i soci del direttore la si trova nei brogliacci delle intercettazioni che colgono il dialogo tra Ennio Virlinzi e Michele (Elio) Castiglione, membri del consiglio di amministrazione della Dittaino Development s.r.l., società promotrice dell’Outlet di Agira, nonché storici amici in affari dell’editore catanese: “Abbiamo messo poco meno di diecimila euro e abbiamo guadagnato due milioni di euro. Ce ne capitassero di affari così un paio l’anno”.
Confermato dalla testimonianza di Viola anche il ruolo centrale svolto da Raffaele Lombardo, nel risolvere spinose questioni relative alla realizzazione di Porte di Catania. Si tratta della ormai famosa riunione, tenutasi nella sede de La Sicilia, in cui l’allora presidente della Regione promette (e mantiene) il suo interessamento, attraverso il fido architetto Zapparata, nel modificare l’iter di approvazione di una variante edilizia riguardante il centro commerciale.
Sarà proprio Viola, come dimostrano le intercettazioni ambientali, a proporre a Lombardo di “cambiare qualcosa, di ammorbidire ma non in denaro”. Da lì a poco la variante edilizia non passerà dal Consiglio comunale ma sarà approvata, con quattro righe di scarne motivazioni, dagli uffici della burocrazia comunale.
L’ex parlamentare europeo invece si tirerà fuori dal rovente capitolo dei subappalti dei centri commerciali. Secondo Viola, saranno il lombardo Antonio Percassi e il cagliaritano Sergio Zuncheddu, cioè i capitani d’impresa che realizzeranno L’Outlet di Agira a trasformare quei cantieri in autentici accampamenti di imprenditori siciliani in odor di mafia (i fratelli Basilotta, Sandro Maria Monaco, Mariano Incarbone, quest’ultimo condannato in via definitiva per associazione mafiosa).
Sull’approvazione della variante al piano regolatore che trasforma i terreni di Ciancio da agricoli in edificabili, decuplicandone il valore, Viola offrirà una risposta sbalorditiva. Rispetto a questo passaggio chiave, da cui dipende la realizzazione di Porte di Catania, la spiegazione sarà di tipo soprannaturale: un evento sospeso tra realtà e magia.
“Quell’approvazione, ripeterà più volte dinanzi ad un’aula sbigottita, è stata un miracolo. Un autentico miracolo”. Già il “miracolo” prodotto da un consiglio comunale annichilito e deprivato di funzioni di indirizzo e di controllo, docile strumento di decisioni assunte al di fuori di esso.
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Ciò che Viola chiama miracolo è questo e non altro. Basti qui citare la testimonianza al processo del senatore Mimmo Sudano che in aula ha raccontato come: “l’approvazione della variante Porte di Catania era un desiderio del sindaco Scapagnini”. Un desiderio maturato nell’animo dell’ex primo cittadino attraverso vie assai più terrene di quelle immaginate dal dottor Viola.
Della testimonianza di Viola colpisce innanzitutto il tono, lo stile e un esagerato senso di se stesso. Se deve ricostruire il proprio addio alla Regione, anziché dire semplicemente che aveva raggiunto l’età pensionabile, sente il dovere di sottolineare che “nel momento in cui decisi di candidarmi alle europee mi dimisi da dirigente regionale per non trovarmi in conflitto con la funzione di garanzia che avevo svolto in Regione”. Come se egli fosse un membro della Corte costituzionale e non un funzionario della peggior macchina burocratica mai esistita sulla faccia della terra. La fine della sua breve parabola politica invece l’attribuisce, non all’impossibilità di essere rieletto, ma “all’esaurirsi del filo riformatore che aveva guidato il disegno di Mario Segni”. E quel filo riformatore dove lo ritesserà? Niente poco di meno che in una società di promozione di centri commerciali e in una poltrona nel consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia, storico crocevia delle signorie clientelari e mafiose dell’isola, in rappresentanza di un governatore finito in carcere per i suoi rapporti con Cosa nostra.
Viola altro non è che un vecchio-nuovo mediatore dell’economia della rendita, del parassitismo, dei soldi facili e furbi. Quanto più è meschina la funzione che si svolge tanto più occorre nasconderla in formule retoriche e altisonanti. Da qui il suo ciarlare intorno a fumosi orizzonti riformatori e il blaterare di alte funzioni di garanzia. Egli è il frutto di fili antichi e robusti, di reticoli affaristici strutturati e radicati nella società e nelle politica siciliana e italiana. Un vecchio nuovo mondo degli affari predatori, aperto per sua natura alla partecipazione della criminalità mafiosa.
L’’ex funzionario del Banco di Sicilia cercherà di ridimensionare fino a farlo scomparire il ruolo di Ciancio. In aula racconterà della “diffidenza inziale e dello stupore dell’editore dinanzi a quanto era stato realizzato ad Agira”. Un centro commerciale che nasce all’insaputa del direttore. Un’altra pagina di quel realismo magico di cui Viola sembra non poter fare a meno. Ma il suo attivismo somiglia a quello del gabelliere che si muove all’ombra del padrone della scena ed a questi che egli renderà conto. Senza Ciancio non ci sarebbero stati né Porte di Catania né l’Outlet e la sua società di consulenza sarebbe naufragata nel nulla. E’ il direttore, ad Enna e ancora di più a Catania, a rappresentare il valore aggiunto delle operazioni speculative, ad aprire porte che in sua assenza sarebbero rimaste serrate e chiuse.
Viola incasserà dall’operazione Porte di Catania più di 1 milione e mezzo di euro, circa dieci milioni di euro gli altri soci, saranno invece 28 i milioni di euro guadagnati da Ciancio attraverso la vendita dei propri terreni su cui sorgerà il centro commerciale. Lo stesso giochetto milionario sarà replicato ad Agira con la nascita dell’Outlet. E’ forse arrivato il momento di mettere in discussione il modo in cui le nostre classi dirigenti si arricchiscono.
Il processo Ciancio altro non è che una straordinaria radiografia del potere di ieri e di oggi, che nel silenzio tombale di giornali e giornalisti, rischia di trasformarsi in una nuova occasione mancata. Speriamo che vi sia un sussulto della società civile, che si smuovano le acque, che si dia vita ad una nuova stagione in grado di restituire alla città e all’opinione pubblica nazionale l’autentica portata di una vicenda come quella di Ciancio, che trascende la dimensione giudiziaria e che si iscrive a pieno diritto nella storia della città e dell’Italia. Di quel processo occorre parlare liberamente, occuparsene al di là degli esiti giudiziari, per lasciarci alle spalle il passato e costruire un futuro diverso.
Credo che il fatto di aver solamente criticato e mai proposto soluzioni alternative abbia contribuito alla presenza di organizzazioni malavitose che hanno inciso negativamente sull’economia siciliana. La sinistra credo sia anche responsabile di questa grave crisi socioeconomica perchè ha solo criticato e mai offerto soluzioni alternative che non fossero legate all’estremismo idiota socialcomunista. Forse questo aspetto banale e perverso della posizione della sinistra ha offerto ampie possibilità a ceti speculativi di poter fare affari rovinando il territorio e turbando anche l’economia. A proposito del centro di Agira, ad esempio, so di persine che vi lavorano per appena 600 euro al mese ed affrontano anche il percorso Catania- Agira. La mancata denuncia da parte della sinistra è parte dei torti e degli errori che si addebitano alla sinistra stessa.