I recenti referendum in Lombardia e Veneto e l’esplosione della “questione catalana” hanno riproposto, nel tempo della cosiddetta globalizzazione, il tema di una maggiore autonomia (o di un’eventuale separazione, come in Spagna) nei rapporti fra regioni e stato centrale.
Non si tratta, perlomeno in Italia, di una novità assoluta, né rispetto al passato prossimo (dibattito sul federalismo e conseguenti modifiche costituzionali), né rispetto alla stessa nascita della Repubblica.
Nel caso siciliano, l’approvazione dello Statuto (15 maggio 1946) ha preceduto, addirittura, il referendum Repubblica/Monarchia (2 giugno 1946).
Lo Statuto speciale è figlio di un compromesso fra istanze autonomiste progressiste, centralistiche (soprattutto la DC), progressiste unitarie (PCI) e reazionarie separatiste. Queste ultime sollecitate da latifondisti e agrari timorosi di perdere i loro privilegi, soprattutto dopo i decreti Gullo, che limitavano la proprietà privata e concedevano le terre ai contadini.
Lo Statuto siciliano garantiva, e garantisce, un notevole grado di autonomia ma, soprattutto, una grande disponibilità di risorse economiche.
Però, se si eccettua l’unica vera riforma approvata dall’ARS nella prima legislatura, quella agraria, sia pure piena di contraddizioni e nel solco di quella nazionale, nessuno saprebbe indicare quale altra legge di riforma, degna di rilievo, sia stata approvata nei settanta anni di vigenza dello Statuto.
Certo, in un tale bilancio non vanno taciuti i riferimenti al quadro politico nazionale, dalla guerra fredda alla convenzione ad excludendum nei confronti dell’allora PCI.
La DC, partito egemone per oltre cinquant’anni, supportata anche della Chiesa, intendeva combattere i comunisti a tutti i costi; questo ha condotto la classe politica siciliana di governo ad un’alleanza di fatto con la Mafia e con quasi tutti i settori parassitari dell’isola. Valga per tutti l’atteggiamento negazionista della Chiesa ufficiale, particolarmente nella persona del Cardinale Ruffini, nei confronti della Mafia, fino all’inizio degli anni ’60.
La Sicilia è stata anche terra di sperimentazioni politiche, figlie di una discutibile ideologia sicilianista o (iper)autonomista, come nel caso del “Milazzismo” (nel 1958 un deputato della DC, Milazzo, poi estromesso dal suo partito, venne eletto presidente della regione con i voti dei partiti di destra e di sinistra, in contrapposizione al candidato ufficiale del suo stesso partito) e del governo delle “larghe intese”, Capodicasa-Cuffaro, del 1998.
Non stupisce, quindi, che la maggior parte delle leggi approvate dall’ARS siano state “leggi di spesa”, con cui i vari partiti che si sono succeduti alla guida della Regione hanno coltivato le loro clientele, distribuendo, un’ingente quantità di pubblico denaro, vuoi a pioggia, vuoi sostenendo carrozzoni caratterizzati da un evidente sperpero di denaro, quali l’EMS, l’Azasi, la SOFIS, l’ESPI, ecc.
La stessa gestione dell’amministrazione regionale si è contraddistinta per una dilatazione pletorica degli organici, con stipendi di dipendenti e funzionari che non hanno eguali nell’organizzazione dello Stato.
A tutto ciò va aggiunto lo spreco determinato dal mancato accesso ai fondi comunitari. Utilizzati, quelle rare volte che sono stati ottenuti, in maniera clientelare, si veda, per ultimo, lo scandalo della formazione professionale.
E’ tutta colpa dello Statuto speciale? Certamente no, basti vedere quello che sono riusciti a fare nel Trentino/Alto Adige, una regione che, per progetti, livello di sviluppo, ambientale e qualità della vita si pone all’avanguardia nell’Europa comunitaria.
Bisogna fare, invece, una profonda riflessione su quello che ha rappresentato l’Autonomia, sia ordinaria che speciale, nelle Regioni meridionali.
Il problema, allora, non è cambiare questo o quell’altro articolo dello Statuto, attribuire o togliere questa o quella competenza. Il nodo centrale è quello della classe politica: i modi di reclutamento, il funzionamento dei partiti, il rapporto fra questi e i vari gruppi d’interesse (mafia compresa).
E’ sbagliato dare la colpa alle istituzioni per problemi che sono tutti di natura politica. Una classe politica all’altezza è in grado di supplire ai difetti delle istituzioni, utilizzando vari strumenti, mentre la migliore Costituzione o il migliore – ammesso che ne esistano – Statuto di autonomia, in mano ad una pessima classe politica, non possono che produrre risultati pessimi.
Nel caso della Sicilia, l’autonomia speciale ha comportato l’elargizione alla Regione di un’enorme quantità di risorse finanziarie su cui, come bestie fameliche, si sono avventati tutti i partiti, piccoli o grandi, senza ahimè distinzione fra centro, destra e sinistra.
Partiti che, a livello regionale, hanno espresso, tranne lodevoli eccezioni, la peggiore classe politica della nazione. Per corruzione, incompetenza, rozzezza, legami con la criminalità mafiosa.
Tutto ciò non poteva non produrre quello che è sotto gli occhi di tutti: da un lato la bancarotta del bilancio regionale (oltre 8 miliardi di deficit) e, dall’altro, il disastro in tutti i settori: agricoltura, turismo, beni culturali, trasporti e infrastrutture, impedendo quello sviluppo che l’autonomia avrebbe potuto realizzare.
Volendo individuare alcune soluzioni istituzionali, si possono concepire forme di autonomia a dimensione variabile, che peraltro esistono già in vari ordinamenti (Spagna e Regno Unito). Il problema è anche il rapporto con lo Stato centrale e con gli organi di controllo finanziario (ad es. la Corte dei conti).
Occorrerebbe un monitoraggio continuo dell’attività delle Regioni, oltreché da parte dei cittadini, anche da parte dello Stato, che consenta non solo di bloccare atti regionali ritenuti illegittimi o pericolosi, ma anche di intervenire in via sostitutiva quando la Regione non riesce a svolgere compiti essenziali.
Si potrebbe persino arrivare all’abolizione del regime speciale (che può avvenire soltanto con legge costituzionale), a causa anche – per la Sicilia – del venir meno delle condizioni storiche che l’avevano prodotta.
La piena accettazione dell’autonomia ordinaria, con minori competenze, e soprattutto minori risorse da gestire. potrebbe rappresentare per la Sicilia una sorta di “dieta” democratica e legalitaria.
Una “dieta” cui dovrebbe però accompagnarsi un radicale cambiamento della classe politica, senza il quale nessuna innovazione istituzionale potrà avere effetti positivi.
Quest’ultimo problema lo possono però risolvere solo i siciliani, se vogliono. Ma i cittadini siciliani lo vogliono davvero?
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