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Abolizione Province, in Sicilia è legge

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L’abolizione delle Province, recentemente approvata dall’assemblea regionale siciliana, può essere salutata come una conquista? risponde davvero alla esigenza  di ridurre i costi e i privilegi della politica? il nuovo ordinamento garantisce forme di controllo della gestione pubblica e adeguati spazi di democrazia? Affronta queste e altre questioni su Argo il costituzionalista Ettore Palazzolo, esponendo le sue riflessioni critiche e aprendo un dibattito che ci auguriamo abbia più voci.
L’Assemblea regionale siciliana nella seduta di martedì 11 marzo 2014 ha approvato con 62 voti favorevoli, fra i quali i deputati del Movimento Cinque stelle, 14 contrari e 2 astenuti il disegno di legge “Istituzione dei liberi consorzi comunali e delle Città metropolitane”. Va così in porto l’epocale riforma delle Province tanto voluta dal Presidente Crocetta, frutto di un iter complicato e faticoso, che ha fatto più volte traballare il governo sotto i colpi dei franchi tiratori e del voto segreto.
La Regione siciliana, prima in Italia, procede così all’abolizione delle Province, dando addio alle elezioni per l’organismo intermedio, e istituendo i Liberi consorzi di Comuni.
E’ appena il caso di ricordare che i Liberi consorzi non solo erano enti previsti dallo Statuto speciale siciliano, che è legge costituzionale a tutti gli effetti, ma in base all’articolo 15 dello Statuto avrebbero dovuto sostituire le Province fin dall’inizio. Sono pertanto trascorsi quasi settant’anni per l’applicazione di tale disposizione statutaria.
Si tratta di “Enti di secondo grado”, secondo la formulazione della legge, non più eletti direttamente dal popolo, ma composti dai sindaci dei comuni che compongono il Consorzio.
A ciò va aggiunta, ed è questa la vera novità della norma, l’istituzione delle Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, non previste, queste sì, dallo Statuto. Si tratta di un modello di coordinamento delle funzioni di enti locali già previsto largamente in molti ordinamenti europei, e che – si spera – dovrebbero servire anche ad attrarre finanziamenti europei all’uopo indirizzati.

Quello che la legge prevede

I Liberi consorzi, cioè consorzi su base volontaria, saranno composti inizialmente dai Comuni insistenti nel territorio delle vecchie Province, ed avranno il compito e i poteri di  “esercitare in forma unitaria funzioni e servizi”.
Per quanto concerne i dipendenti ed i lavoratori delle Province, oggetto di diversi interventi e polemiche in Aula, si stabilisce all’art. 1 della legge che “I liberi consorzi – continueranno – a utilizzare le risorse finanziarie, materiali ed umane già di spettanza delle corrispondenti province regionali e … ad avvalersi, nei limiti delle disponibilità finanziarie dei servizi svolti da società interamente partecipate, garantendo la continuità dei rapporti contrattuali in essere alla data di entrata in vigore della legge”.
Al personale dei nascenti liberi consorzi sarà attribuito l’attuale status giuridico-economico. Delle attuali Province i Consorzi utilizzeranno anche le sedi.
In virtù del carattere volontario che dovrebbe essere alla base della costituzione dei liberi consorzi (a parte la fase della prima applicazione della legge) i Comuni, entro sei mesi dalla pubblicazione del ddl di riforma potranno chiedere di dare vita al nuovo ente.
Per farlo dovranno però rispettare due requisiti: la continuità territoriale e un numero minimo di abitanti, quantificato in 180 mila, per la creazione di un nuovo Consorzio.
Per l’adesione, inoltre i Comuni dovranno esprimersi attraverso delibere approvate dai due terzi dei componenti del Consiglio comunale, e dopo un referendum popolare confermativo. Un iter che comunque dovrà essere completato entro sei mesi.
Ciascun Libero Consorzio sarà composto dal Presidente, dalla Giunta e dall’Assemblea. L’Assemblea sarà composta dai soli sindaci. Pertanto in province come Messina o Catania, le assemblee potrebbero essere formate da sessanta, settanta sindaci.
L’Assemblea è l’organo di indirizzo politico-amministrativo del libero Consorzio. Essa adotta, a maggioranza assoluta dei componenti, un regolamento per il proprio funzionamento.
Il presidente del Consorzio, che sarà uno dei sindaci del Consorzio, verrà eletto però da una platea più ampia della semplice Assemblea. Ai sindaci, infatti, si aggiungeranno anche tutti i consiglieri dei Comuni che compongono il Consorzio.
Piuttosto complicata e confusa è stata invece l’istituzione delle Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina. Dopo una prima bocciatura, il nuovo ente è stato ripescato con un emendamento. Il territorio delle Città metropolitane avrà la stessa estensione delle vecchie “aree metropolitane”, individuate da un decreto del presidente della Regione del 1995.
In questa nuova ridefinizione territoriale delle tre Città metropolitane saranno ricompresi una ventina circa di Comuni per ciascuna delle tre città, i quali dovrebbero restare fuori dai Consorzi (ad es., per Catania, i Comuni pedemontani o etnei).
Resteranno fuori dall’area metropolitana tutti gli altri Comuni, che confluiranno nel Libero Consorzio, che a quel punto avrà come capofila il Comune più popoloso (per l’ex Provincia di Catania, ad es., Caltagirone).
Le modalità di elezione del “sindaco metropolitano” saranno definite da una legge successiva, mentre i Comuni potranno scegliere sia di uscire dalla città metropolitana, sia di farne parte, ma solo in caso di continuità territoriale e solo in seguito a una delibera del Consiglio approvata a maggioranza assoluta.
Viene pure rinviata ad altra legge regionale la ridefinizione delle funzioni di Consorzi e Città metropolitane, la quale potrà anche provvedere a razionalizzare, chiudendo e accorpando gli enti delle ex Province.
Entro 30 giorni dalla entrata in vigore della legge, l’Assessore regionale per le autonomie locali dovrà fissare i criteri sulla base dei quali saranno definiti i servizi e le funzioni oggetto di accorpamento. I Comuni avranno poi sei mesi per decidere se uscire o far parte di un nuovo Consorzio.
Fino al 31 ottobre la continuità istituzionale e amministrativa verrà assicurata dagli attuali Commissari delle Province. Entro quella data dovrà essere approvata la legge che prevede il trasferimento delle funzioni dal vecchio al nuovo ente.
Per le ex province viene prorogato il commissariamento, evitandosi in tal modo le elezioni per i vecchi enti, mentre entro sei mesi dovrà essere approvata la legge che ridefinirà compiti e funzioni dei nuovi enti.

Considerazioni critiche

Come si può notare, questa legge costituisce solo il primo passo di un più lungo processo di riorganizzazione del potere locale nella Regione siciliana e non solo.
Nel complesso non credo che ciò possa comportare un risparmio economico di grossa entità per le casse pubbliche (e per i contribuenti): i tagli prospettati riguardano soltanto il livello di vertice della Province, in particolare le indennità di Consiglio, Giunta e Presidenti di Giunta, oltreché le spese per le elezioni.
Per quanto concerne le funzioni svolte (e quindi la spesa per il personale e i dipendenti) queste nell’immediato rimarranno le stesse, anche se svolte dai nuovi enti, Liberi consorzi e Città metropolitane; mentre a regime, personale, dipendenti e spesa, verranno affidati, secondo i criteri stabiliti dalla legge, alla Regione, ai Comuni, ai Consorzi ed alle città metropolitane.
La legge in questione non presenta problemi di legittimità costituzionale, anche perché i principi in materia sono stabiliti dall’art. 15 dello Statuto siciliano, di cui la legge in questione costituisce una, ancorché tardiva, attuazione.
Viene però aggiunto l’obbligo, non previsto dalla disposizione statutaria, ma ricavabile dall’art. 133 della Costituzione, del referendum delle popolazioni interessate.
Certo, è innegabile che l’approvazione di questa legge è anche il frutto, nel bene e nel male, di quel forte vento anticasta e antipolitica che si batte per l’eliminazione dei privilegi dei politici e di gran parte delle forme della mediazione politica, o per lo meno, per una forte contrazione di esse.
Il punto che vorrei mettere a fuoco, in relazione a tale riforma, è il problema della responsabilità politica e che si porrà, a mio avviso, al momento della sua applicazione a regime. La situazione è già diversa per le Città metropolitane.
Chi risponderà ai cittadini della cattiva gestione del Consorzio? Il presidente del Consorzio o i membri dell’Assemblea del Consorzio stesso che sarebbero poi i sindaci (i quali, peraltro, potrebbero avere ben amministrato il loro rispettivo Comune)? E come sanzionare, fino a sostituire l’Amministrazione di un Consorzio che abbia dato cattiva prova, non essendoci una vera dialettica maggioranza/opposizione (ed ovviamente mancando l’istituto della sfiducia)?
E dal momento che, il pur tanto abusato diritto di voto, è rimasto fino ad oggi l’unico strumento a disposizione dei cittadini per cambiare, anche solo in parte, il personale politico-amministrativo di un Ente locale, come sanzionare un’amministrazione consortile quantomeno inadeguata, essendo i Consorzi organismi non più a base elettiva?
La conseguenza di ciò sarebbe che le uniche sanzioni efficaci sarebbero quelle penali (nel caso di reati accertati dalla Magistratura in via definitiva) o quelle amministrative (che, nei casi più gravi, potrebbero comportare il commissariamento governativo).
Ciò peraltro sarebbe appena tollerabile in presenza di Consorzi con pochi poteri e funzioni proprie, un bilancio limitato e poca disponibilità di spesa. Il rischio può risiedere in sede di applicazione della legge in questione: in particolare potrebbe accadere invece che una serie di funzioni pubbliche vengano allora affidate ad organismi pseudo-tecnici (come nel recente passato gli A.T.O.), con una gestione affatto trasparente, magari affidata a politici trombati e con controlli a dir poco lacunosi.
Certo, difendere la democrazia, anche sul piano locale, non consiste esclusivamente nel considerare intangibili tutti i livelli di democrazia rappresentativa, ivi comprese le attuali Province, ma anche e soprattutto nell’ampliare gli spazi di democrazia partecipata e dal basso (diritto all’informazione, petizione, referendum, ecc.). Sono questi istituti già previsti negli Statuti di Comuni e Province.
Si tratta allora di riprenderli, attualizzarli, sviluppando preliminarmente una seria riflessione sul perché, salvo rare occasioni, questi strumenti di democrazia diretta non hanno funzionato.

Conclusioni

Andando ad una valutazione conclusiva, il rischio è che tale legge, anche se costituisce un’attuazione (tardiva) dello Statuto siciliano, inserendosi in un orientamento più generale (un’operazione analoga viene fatta al livello nazionale con la legge Delrio, ed anche, per certi versi, la riforma/abolizione del Senato sembra andare nella medesima direzione), anche a causa dell’azione concentrica di spinte autoritarie (nel senso di riduzione della complessità) e spinte populiste, possa portare ad un ridimensionamento proprio degli enti o organi considerati, dall’attuale vulgata, meno utili: oggi le Province, e domani il Senato della Repubblica.
La stessa democrazia rappresentativa potrebbe venire considerata un impaccio perché avrebbe costi troppo elevati e pertanto occorre cominciare a ridimensionarla. Per concludere, il voto non è certamente tutto – lo sappiamo bene – ma se si comincia a eliminare il diritto di voto, ci sarebbe davvero di che essere preoccupati.

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