Il 30 giugno, con una solenne cerimonia alla presenza delle più alte cariche dello Stato, è stata esposta in una teca del Transatlantico del Parlamento italiano la borsa bruciacchiata del giudice Paolo Borsellino. Vi rimarrà fino al 30 ottobre.
Viene da chiedersi il senso di questa esposizione, considerando che sulla strage di via D’Amelio si naviga ancora a vista: a oltre trent’anni dai fatti, non esiste ancora una verità definita. Forse, con l’avvicinarsi dell’anniversario del 19 luglio 1992, questo oggetto verrà presentato come una sorta di “reliquia civile”, in mezzo al solito profluvio di commemorazioni e cerimonie stereotipate, che da 32 anni si ripetono stancamente.
Nessuno, durante la cerimonia, ha ricordato il percorso tortuoso e opaco di quella borsa. Noi, stanchi delle celebrazioni di facciata, vogliamo invece ripercorrerne la storia, assieme a quella dell’Agenda Rossa, per mettere in luce le incongruenze, le omissioni, i depistaggi e gli errori.
Tutto comincia con una foto storica: quella del capitano Giovanni Arcangioli, del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo, che nel caos dell’esplosione di quel 19 luglio preleva dall’auto la borsa contenente l’agenda rossa di Borsellino. Lo scatto fu realizzato tra le 17:20 e le 17:30, ma venne alla luce solo nel 2005 grazie al vicedirettore di Antimafia Duemila, Lorenzo Baldo, che la segnalò immediatamente alla DIA.
Ne seguì un’indagine su Arcangioli, accusato del furto dell’agenda e di falsa testimonianza. Ma venne prosciolto da entrambe le accuse: la prima il 17 febbraio 2009, la seconda il 26 aprile 2012.
Tuttavia, la Corte d’Appello del processo Borsellino Quater ha definito il comportamento di Arcangioli “molto grave”, sottolineando come il carabiniere non abbia mai fornito una spiegazione plausibile delle sue azioni, limitandosi a dire che in quel momento la borsa aveva “scarsa o nulla rilevanza investigativa” e che non ricordava nulla.
Viene spontaneo chiedersi perché abbia preso, autonomamente, una decisione così delicata. Forse invocando quello “spazio di autonomia decisionale” a cui si richiamava il colonnello Mori quando, senza avvertire la Procura di Caltanissetta, sospese la sorveglianza del covo di Totò Riina dopo l’arresto del boss il 15 gennaio 1993.
Anche Mori, davanti alla Commissione Antimafia, si è giustificato affermando che quella villa fosse solo un luogo di appoggio, dove Riina non avrebbe mai nascosto documenti compromettenti. Sta di fatto che, il 2 febbraio, il covo risultò completamente vuoto.
La borsa venne successivamente consegnata ad Arnaldo La Barbera, all’epoca capo della squadra mobile di Palermo e, in seguito, figura di vertice del “Gruppo Falcone-Borsellino”, il pool di investigatori incaricato di indagare sulle uccisioni dei due magistrati. Col tempo, però, si scoprirà che dietro l’immagine del funzionario integerrimo, La Barbera, morto di cancro nel 2002, ebbe un ruolo di primo piano nel depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio.
Recentemente, la Procura di Caltanissetta ha reso noto di aver acquisito agli atti, nell’ambito delle indagini sul depistaggio e sulla sparizione dell’agenda rossa, un documento datato 20 luglio 1992. In esso, La Barbera dichiarava di aver consegnato al procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, “uno scatolone in cartone contenente una borsa e un’agenda rossa appartenenti al giudice Borsellino”.
Una circostanza mai emersa in 33 anni di indagini, e che lo stesso La Barbera — più volte ascoltato — non aveva mai menzionato. Per questo, il pool coordinato dal Procuratore Capo della Repubblica di Caltanissetta, Salvatore De Luca, ha ordinato perquisizioni presso l’abitazione della vedova e dei figli di Tinebra, deceduto nel 2017.
Profondamente amareggiato, il fratello di Paolo, Salvatore Borsellino, ha commentato così “la squallida esibizione di quella borsa”.
“Quella borsa conteneva l’Agenda Rossa di Paolo, la scatola nera di quella strage annunciata, e quell’agenda a più di trenta anni di distanza non è ancora venuta alla luce e non potrà venire alla luce dato che ancora non si è mai svolta la fase dibattimentale di un processo per individuare i mandanti di quel furto. Se l’agenda è transitata nelle mani di La Barbera e Tinebra, prima di morire, avranno provveduto a custodirla nei caveaux dei sotterranei dei servizi segreti, di cui lo stesso La Barbera faceva parte, e dove sicuramente, a mio avviso, oggi si trova”.
“I monumenti – come dice il giornalista Gianni Barbacetto – si innalzano quando si vuole chiudere una stagione, vinta una lotta per la legalità e la verità. Sulle stragi del 1992/93 non c’è niente di concluso : la verità è una borsa vuota esibita in Parlamento come una rassicurazione, mentre è un monumento al depistaggio, eterno ingrediente della storia italiana, fatta di bombe e doppi giuramenti, di logge riservate, di deviazioni, che sono il comodo scudo per apparati che proseguono il loro scopo dimenticando la Costituzione”.
Oggi pomeriggio in un’intervista concessa al Gr2 , la Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Chiara Colosimo ha detto che bisogna arrivare ad una verità ! Io non sono d’accordo. Si deve arrivare a La VERITA’ !!!!