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Povertà educativa e disagio giovanile, quale ruolo per le parrocchie?

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E’ ormai proverbiale l’invito rivolto dal vescovo Renna ai fedeli durante le festività agatine: “fate indossare ai vostri figli non solo il sacco di Sant’Agata, ma il grembiule per andare a scuola”. Ormai il grembiule a scuola non si indossa più, ma il messaggio era chiaro. Metteva al centro l’importanza della scuola, l’urgenza di togliere i ragazzi dalla strada, di indirizzarli verso un percorso formativo che dia loro un futuro.

Era un messaggio che parlava alla città, ricordava a tutti la centralità del disagio giovanile e la gravità della dispersione scolastica che a Catania (dati Istat) tocca il 25%. Ed era un richiamo alla responsabilità delle famiglie che rimangono un fattore determinante nelle scelte e negli orientamenti dei ragazzi. E che spesso sono anch’esse spaesate, anch’esse in povertà educativa.

Il tema estremamente complesso di intere generazioni di giovani lasciate a se stesse e bruciate dalla mancanza di opportunità non è nuovo per Catania. Da quaranta anni la situazione non cambia e non cambia la localizzazione del disagio più grave. Sono sempre gli stessi i quartieri a rischio, quelli mantenuti in stato di abbandono, penalizzati dalla carenza di servizi, lasciati in mano alla criminalità organizzata. Era il tasto su cui insisteva Giambattista Scidà.

La situazione non migliora, anzi si aggrava e trovare una risposta efficace si fa sempre più difficile. Nessuna istituzione può farcela da sola. Non la scuola, che pur rimane a volte l’unico baluardo presente nei contesti più complicati, non il servizio sociale, da anni depotenziato e senza più le sedi periferiche nei quartieri difficili, non le forze dell’ordine anch’esse ridotte al minimo e talora asserraggliate in posizione difensiva nelle loro sedi blindate. Neanche l’Istituto Penale Minorile, che pure da decenni offre ai giovani detenuti opportunità di formazione che nessuno aveva mai offerto loro, non l’Ufficio per i Minorenni (Ussm) che accompagna i ragazzi, non ristretti, dell’area penale verso una possibilità di riscatto.

Nessun ente può farcela da solo, la risposta deve essere plurima, oggi si direbbe integrata, una azione sinergica di più realtà, soggetti pubblici e privati, organizzati e messi a sistema, anche questa un’epressione oggi ricorrente.

Qualcosa si è messo in moto. Attorno alla Prefettura e al Tribunale dei Minori è nata una rete di istituzioni, civili ed ecclesiatiche, ed associazioni del terzo settore, costituita in Osservatorio metropolitano per i minori a rischio. Il nuovo vescovo si è dimostrato attento al problema e ha istituito un Ufficio diocesano per la dispersione scolastica, presieduto da una dirigente scolastica da decenni impegnata nel cuore di Picanello. All’interno di una realtà civica, il Coordinamento per monitare l’utilizzo dei fondi PNRR, è cresciuto un gruppo che si occupa di povertà educativa e stimola scuole e associazioni a costitursi in comunità educanti, sul modello di ciò che già avviene a Napoli, nel rione Sanità, e altrove.

Dalle parole, dai programmi si deve passare ai fatti per evitare che queste esperienze facciano la fine dei tanti Osservatori precedenti, rimasti senza ricadute significative.

Soprattutto bisogna coinvolgere quello che, fino ad ora, è stato il grande assente di questo difficile contrasto alla povertà educativa, il Comune. Presente a livello formale nell’Osservatorio prefettizio, ma non attivo se non con gesti talora controproducenti come l’offerta di vaucher per attività ‘private’ che non fanno comunità e non educano.

Lunedì 27 giugno la Diocesi di Catania ha chiamato le parrocchie e gli operatori pastorali ad un confronto su “Il ruolo delle parrocchie a Catania fra povertà educativa e disagio giovanile”, con tre relazioni introduttive e ampio spazio per gli interventi.

Ad aprire il convegno Agata Pappalardo, dirigente dell’Istituto Malerba a Picanello e presidente dell’Ufficio diocesano contro la dispersione scolastica, di cui dicevamo. Accanto a lei, Carlo Colloca, dell’Università di Catania, a nome dell’Osservatorio prefettizio, e Antonio Fisichella del Coordinamento povertà educativa.

Pappalardo e Colloca raccontano delle rispettive attività in corso, questionari e incontri con i vicariati da una parte, mappe e censimenti dall’altro, con un programma di rigenerazione urbana che ha l’ambizione di non limitarsi a migliorare gli spazi ma intende rispondere ai bisogni delle persone. Bel programma, ma ancora solo un programma. Fisichella coinvolge l’uditorio con un appassionato intervento sulle Comunità educanti, quelle già esistenti a Napoli e altrove, quelle avviate in città, a San Giovanni Galermo, Librino, Picanello, e quelle da avviare in altri quartieri. Con la scuola al centro, le parrocchie, le associazioni, e anche gli uffici pubblici come Ussm, Asp etc a supporto. Un tema da approfondire, questo delle comunità educanti e delle esperienze già attive nel nostro territorio, che andrebbero conosciute meglio. Ma non è questo il contesto.

Gli interventi danno voce ad esperienze di impegno, personale o di gruppo, volte a dare un contributo in situazioni difficili, in città e in provincia.

Ma l’impressione è che i veri problemi non vengano fuori. Soprattutto quelli delle parrocchie, che potenzialmente possono essere di supporto alle Comunità educanti, ma che hanno dei problemi al loro interno. Come solo Pappalardo ha il coraggio di dire, nelle parrocchie mancano i giovani, mancano i volontari, sono talora i tirocinanti delle facoltà universitarie di servizio sociale ad operare al loro interno. Un’esperienza utile per questi ultimi ma non un segnale incoraggiante sulla ‘salute’ delle parrocchie, sempre meno presenti sul territorio e sempre meno attrattive per i giovani.

Il parroco della Mercede, con un brevissimo e concretissimo intervento, mette a disposizione generosamente gli spazi della sua parrocchia. Una offerta importante ma che dimostra come, nella parrocchie, manchino i soggetti in grado di riempire gli spazi con delle iniziative proprie che coinvolgano i bambini / ragazzi del quartiere.

Gli altri parroci, se sono presenti, tacciono. Dopo due ore di discussione, ci si scambiano i recapiti, per non perdersi, per cercare di fare rete. Con la consapevolezza che ci sia ancora davvero tanto da fare, a tutti i livelli.

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