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Comunità educanti e Patti territoriali per contrastare la povertà educativa

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Un dramma che si evidenzia nei numeri della dispersione scolastica, e più ancora nei comportamenti irresponsabili e violenti, talora francamente devianti di molti ragazzi della nostra città, del Mezzogiorno, del Paese tutto, sintomo del forte e diffuso disagio giovanile.

La definiamo povertà educativa, ma per evitare che anche questo diventi uno slogan, una etichetta destinata a perdere valore, per capirne le ragioni e per trovare risposte adeguate, bisogna mettere in campo pensiero, energie, progetti. Non in modo isolato ma unendo le forze, creando realtà stabili e forti che coinvolgano la scuola, le associazioni, le parrocchie.

Lo stanno già facendo a Catania un gruppo di scuole della zona Nord, tra San Giovanni Galermo, San Nullo e Barriera, che – insieme a coopertaive e associazioni del terzo settore – hanno iniziato a costruire una Comunità Educante nella prospettiva di dare vita ad un Patto Territoriale che coinvolga un importante convitato di pietra, l’Amministrazione comunale.

Un percorso che si presenta lungo, non facile, così come complesso è il fenomeno che si vuole contrastare. Un percorso già intrapreso altrove, dove comincia a dare frutti evidenti, quantificabili.

Per apprendere dalle esperienze di Napoli, del basso ferrarese, di Scandicci è nato il seminario di giorno 24, al Tondicello della Plaia, organizzato dal Comitato per il contrasto alla povertà educativa, a cui sono stati invitati Andrea Morniroli della Cooperativa sociale Dedalus di Napoli, Giovanni Lolli del Patto educativo di comunità del distretto ferrarese sud/est, Ivana Palomba assessora del Comune di Scandicci. Si sono confrontati con Simona Maria Perni, preside dell’Istituto Di Guardo Quasimodo di San Giovanni Galermo, che partecipa al nascente progetto di Comunità educante insiene alle scuole Calvino e Petrarca.

Il seminario ha coivolto insegnanti, dirigenti scolastici, assistenti sociali, operatori di cooperative e associazioni attive sul territorio, che hanno affollato la sala-teatro della parrocchia Beata Maria in Cielo Assunta, impegnandosi in un serrato confronto di esperienze, idee, proposte, per nulla scontate o retoriche.

La povertà educativa, ha esordito Morniroli, non è qualcosa che riguarda solo i bambini poveri, riguarda tutti i ragazzi che non possono sviluppare appieno le proprie capcità e realizzare le proprie aspirazioni. E i dati ci dicono che un quarto degli alunni quindicenni, in Italia, non raggiunge i livelli minimi di apprendimento in italiano e matematica. Resta il fatto che – ha proseguito – a pesare su questo “fenomeno complesso e multifattoriale” sono soprattutto tre fattori, la povertà, i divari territoriali e il genere, visto che le più penalizzate sono le bambine.

Per contrastare la povertà educativa occorre mettere al centro la scuola, l’istituzione più presente sul territorio, definita da Palomba “baluardo di garanzia”, e di cui – nel corso del dibattito – il dirigente scolastico Mauro Mangano ha sottolineato lo straordinario capitale di fiducia di cui ancora gode.

Nella scuola bisogna investire, si appassiona Morniroli, per estendere il tempo pieno, per formare i docenti, per incentivare, pagandoli di più, quelli che accettano di restare nei territori più difficili, come accade in Francia nelle ‘Zone educative speciali’, quelle su cui lo Stato deve scommettere, curandole di più invece che abbandonarle a se stesse come per lo più avviene.

“Servono percorsi di accompagnamento – insiste Morniroli – e non bandi calati dall’alto che possono al massimo agire come riduzione del danno”. Vanno accompagnati anche i docenti, bisogna “prendersi cura di chi si prende cura”, perchè il compito che hanno davanti è molto arduo. Un punto di vista ed una esperienza condivisa da Giovanni Lolli, che considera essenziale la formazione dei docenti e di tutti gli operatori, che vanno seguiti da esperti, tanto che nell’esperienza del basso ferrarese sono stati creati appositi centri di ascolto, gestiti da professionisti, psicologi e pedagogisti, a cui possono ricorrere i ragazzi, le famiglie, e gli stessi docenti.

Ma la scuola da sola non può farcela, attorno ad essa deve nascere una Comunità educante che coinvolga associazioni e parrocchie, e le Amministrazioni comunali. Così sono nati i Patti Educativi Territoriali, a proposito dei quali Morniroli non propone nessuna formula, nessun modello unico che sia declinabile ovunque, di unitario al massimo può esserci un metodo. Anche perché, osserva, c’è oggi un “abuso delle parole”, da cui dobbiamo rifuggire. Patto educativo non è una formula magica, ci sono anche Patti educativi poco seri, così come ci sono ‘reti’, altro termine abusato, che possono essere soltanto “reti mercenarie per vincere bandi” e non alleanze attive nate attorno ad una visione comune. I Patti educativi – ribadisce usando una metafora – sono “fiori di serra, non di campo”, richiedono cura, non si costruiscono con protocolli e tecnicismi, ma condividendo prospettive e visioni.

Il lavoro che si prospetta, quindi, è lungo. Lolli, con riferimento alla propria esperienza ferrarese, parla di almeno cinque anni per vedere i risultati, che devono essere attentamente monitorati anche per evidenziare errori da correggere. E insiste sull’aspetto scientifico del lavoro, che – nel loro caso – è partito da una analisi delle principali cause della dispersione scolastica e dalla ricerca delle opportune risposte. Il fatto che l’abbandono si verifichi nel passaggio dalla scuola superiore di primo grado a quella di secondo grado, ha comportato una grande attenzione all’orientamento, spesso concepito come ‘vetrina’, che è diventato – nel loro progetto – un momento fondamentale che ha coinvolto i genitori ed è stato gestito da figure con competenze specifiche.

Altra causa ricorrente dell’abbandono è la proposta didattica standard delle scuole, inadeguata a dare una risposta a molti ragazzi, certamente ai più difficili. Ne è nato – racconta Lolli – uno sforzo di innovazione didattica che tenesse conto delle esigenze dei giovani, un impegno per il quale si è reso necessario un supposto psico-pedagogico ai docenti e la creazione dei centri di ascolto di cui dicevamo.

Non sempre, tuttavia, la scuola è aperta e disponibile a presenze esterne che vengono talora sentite come ingerenze ingiustificate. Alcuni dirigenti vedono la scuola come un fortino da difendere, dagli specialisti, dalle famiglie, dalle associazioni del terzo settore, dallo stesso Patto territoriale. Lo dice con rammarico, a partire dall’esperienza fatta a Scandicci, l’assessora Palomba, anche perché – osserva – “i dirigenti cambiano nel tempo, così come cambiano gli assessori, ecco perché è importante che i Patti Territoriali diventino realtà stabili, indipendenti da questi cambiamenti”.

A partire da queste esperienze, aggiunge, anche la politica è chiamata a ripensare se stessa, tanto più la politica che si dice di sinistra ed ha grosse responsabilità nell’aver contribuito a indebolire la scuola pubblica piuttosto che supportarla. Indotta soprattutto dalla ricerca del voto, non si è preoccupata di perseguire “obiettivi di cambiamento che hanno bisogno di tempi lunghi che non possono coincidere con le scadenze elettorali”.

Ecco che le Comunità educanti e i Patti territoriali, dentro i quali le Amministrazioni devono assolutamente entrare, anche tirate per la giacchetta, si rivelano – e l’incontro di ieri lo ha evidenziato con forza – potenti agenti di cambiamento sociale.

Inducono, infatti, ognuna delle parti a rivedere se stessa. Deve farlo, come abbiamo appena detto, la politica. Deve farlo la scuola che si deve rinnovare ed attrezzare per una didattica personalizzata e più attenta al contesto sociale. Deve farlo il terzo settore che deve ripensare il proprio ruolo, uscire dalla logica delle reti costruite per vincere bandi, evitare il rischio di trasformarsi in fornitore di servizi a basso costo e creatore di lavoro sottopagato e precario.

Di difficoltà incontrate con le famiglie, talora chiuse nei loro pregiudizi, con grave danno dei ragazzi che non possono seguire le proprie inclinazioni ed intraprendere i percorsi che li appassionerebbero, ha parlato la preside Perni, una dirigente appassionata, profondamente legata al quartiere in cui è cresciuta e ha studiato ed in cui ha scelto di tornare e rimanere, da insegnante e poi dirigente. Dalla collaborazione della sua scuola con la Cooperativa Prospettiva, e successivamente con altre realtà associative del territorio, è nato un percorso che sta crescendo coinvolgendo le altre due scuole, Calvino e Petrarca, e altre realtà del terzo settore. Passare da un ‘progetto’ alla creazione di un Patto stabile che coinvolga anche il Comune è la finalità che si intende raggiungere e, a questo scopo, l’ascolto di esperienze già mature ha di sicuro offerto stimoli e indicazioni che Perni ha raccolto.

All’assemblea del Tondicello un sasso è stato lanciato, adesso c’è un percorso da costruire e gli interventi che hanno animato il dibattito dimostrano che la città è pronta, ha competenze ed esperienze già ricche, che vanno solo attivate. E’ emersa anche la consapevolezza che il “deficit di cultura dei progetti” che ci caratterizza, denunciato nel suo intervento dal docente universitario Marco Mazzone, non solo non permette di ottenere i risultati sperati, ma finisce per comportare uno spreco di risorse. Abbiamo a disposizione, ha detto Teresa Garaffo, docente di scuola dell’infanzia, fondi che spendiamo senza produrre cambiamento, usati solo per attività momentanee, slegate tra loro, che non fanno storia e non portano frutto.

E di dispendio di soldi, e di energie, per iniziative che non servono ha parlato anche Cettina Brunetto, segretaria della Flc (Federazione Lavoratori della Conoscenza) della CGIL. Nè possiamo confondere l’innovazione nella scuola con l’acquisto di nuova tecnologia, come ha rilevato il dirigente scolastico Mauro Mangano, invitando poi a coinvolgere, in un prossimo incontro, tutti i dirigenti scolastici.

La direttora dell’USSM, Roberta Montalto, ha inviato gli operatori pubblici ad uscire dai loro uffici per operare più attivamente nel reale. E’ quello che intende fare con il ‘suo’ ufficio, che lavora con ragazzi dell’area penale che “hanno disastri alle spalle”, da cui si rileva come la povertà educativa non sia legata solo alla dispersione scolastica ma soprattutto all’insuccesso formativo e alla inadeguatezza delle varie agenzie educative, scuola e famiglia comprese.

In conclusione, un invito a tornare al primato della scuola pubblica, una scuola da ‘curare’, a partire dal livello più basso, quello dallo 0 ai 6 anni, della cui importanza per la crescita futura dei giovani dobbiamo tutti prendere coscienza, a partire dalla politica e dalle mamme che non lavorano, le quali, non avendone bisogno concreto, ne sottovalutano l’importanza.

Quanto alle Comunità Educanti, al loro interno tutte le componenti, scuola, USSM, Asp, privato sociale, amministrazione comunale, devono fare la propria parte, costruendo le “équipe paritetiche” di cui ha parlato nel suo intervento Glauco La Martina.

Non è un caso che il seminario sia stato dedicato alla preside dell’Istituto Musco, Cristina Cascio, recentemente scomparsa. Ne ha tratteggiato un commosso ricordo Sara Fagone dell’associazione Librino attivo, che con Cascio ha condiviso l’impegno nel quartiere e in particolare la battaglia per portare a Librino le scuole superiori. Una battaglia difficile, contrastata anche all’interno del mondo della scuola, ma vinta: oggi a Librino, nei licei artistico, musicale, coreutico (unico della Sicilia orientale) del Musco arrivano ragazzi anche da fuori provincia, ed una scuola superiore è nata anche all’Istituto Pestalozzi.

La cura della scuola, l’apertura al quartiere, l’impegno a favore della comunità locale hanno fatto amare ed apprezzare Cristina Cascio, che la lasciato un’eredità che non deve andare dispersa.

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