/

Mirabella e Basile, la privatizzazione dell'interesse pubblico

4 mins read

Dalla penna di Antonio Fisichella un ritratto impietoso delle classi dirigenti cittadine

Catania ha questo di buono: le cose appaiono con estrema chiarezza. Qui le classi dirigenti fanno ciò che vogliono senza alcun timore, alla luce del sole. Anarchicamente protese ai loro affari e alla loro riproduzione. Del tutto digiune di regole e del pur minimo spirito pubblico.

Forse in altre città le cose sono meglio nascoste. Qui invece tutto appare con straordinaria limpidezza. Sembra di assistere ad una tragica e paradossale trasparenza. Basta leggere alcune pagine dei principali processi degli ultimi anni: da Università bandita, al processo Ciancio, a quello di Lombardo.

Al di là dei rilievi penali e degli esiti giudiziari ciò che merge è il senso di impunità delle nostre classi dirigenti: la certezza di poter plasmare la realtà a propria misura, di poterci ricavare sempre e comunque un utile, di poter distorcere l’interesse pubblico riportandolo ad una dimensione privata, personale, familiare e familistica.

E’ la cronaca di sempre, che si ripete uguale a se stessa in questi giorni con gli arresti domiciliari comminati all’ex assessora comunale Barbara Mirabella, imprenditrice nonché candidata di punta alle regionali per Forza Italia, e all’ex rettore Francesco Basile, storico boss della medicina catanese.

Barbara Mirabella, alla luce di quanto finora emerso dall’inchiesta, sembra essersi “confusa”. Portatrice, nella Giunta Pogliese, di una ventata di efficientismo e managerialità – che altro non era che la stanca rimasticatura della presunta superiorità del privato rispetto al pubblico che da trent’anni flagella la società italiana – è rimasta imprigionata dentro il conflitto di interesse che si portava dietro fin dalla sua nomina.

Presa nella morsa tra il suo mestiere di reginetta delle fiere e di grandi eventi e quello di assessora alla “pubblica istruzione e ai grandi eventi”, non ha saputo resistere alla tentazione di chiedere 15 mila euro (dopo la mediazione di Basile, scesi a 10 mila euro) a favore della propria azienda (la Expo s.r.l) per non meglio specificati servizi effettuati in occasione del 123° congresso nazionale della Società italiana di chirurgia svoltosi alle Ciminiere di Catania nel settembre 2021. All’epoca il professor Basile era presidente del consiglio direttivo della S.I.C. .

Secondo Sabrina Rubeo, manager della New Congress la società che si era aggiudicata l’organizzazione del congresso, i soldi pretesi dalla Mirabella erano un’autentica “tangente”. A furia di ripetere che il pubblico è solo la somma degli interessi privati che darwinianamente emergono nella società, la Mirabella ha pensato, dopo essersi a suo dire tanto sbattuta per la riuscita del convegno di Basile, di portare a casa qualcosa per sé, per i propri cari, per la propria azienda.

Un modo come un altro per arrotondare le spese di una campagna elettorale faraonica che l’ha vista tapezzare ogni angolo della città con giganteschi e inossidabili sorrisi? Non lo sappiamo. Ma l’insistenza con la quale la Mirabella richiedeva quei soldi fa pensare ad una patologica assenza di freni inibitori, una totale disconoscenza dei confini esistenti tra ruolo pubblico e interessi privati.

Basile a quanto sembra, oltre ad agire in combutta con la Mirabella per la riuscita del convegno, è un amicone di medici che possono utilizzare strutture pubbliche, da lui gestite in qualità di primario di Chirurgia, per operare privatamente, riscuotendo, senza alcun imbarazzo, ricche parcelle. Un ospedale pubblico viene così messo al servizio di privati. Una sorta di manifesto della privatizzazione dell’interesse pubblico.

E’ solo una parte di una inchieste più complessa che vede Basile al centro di un intricato business della medicina catanese: robot di ultima generazione del valore di 2 milioni e 850 mila euro, acquistati quando era rettore, con una procedura negoziata e senza la pubblicazione di un bando di gara; la richiesta perentoria e ricattatoria all’azienda che commercializza i robot di 80 mila euro sotto forma di sponsorizzazioni del convegno della Sic.

Tutto ciò accade mentre il Basile è imputato al processo ‘Università bandita’, scempio, di cattedre elargite ad amici e parenti, divenuto ben presto e con ragione scandalo nazionale. D’altronde l’ex rettore è una sorta di sacerdote della perpetuazione dei gruppi di potere della città. Folgoranti le parole, agli atti del processo ‘Università bandita’, con le quali ha ritratto il patologico stato dell’università catanese: “Alla fine qui siamo tutti parenti. Alla fine l’università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città, perché fino adesso sono sempre quelle le famiglie”. Le famiglie, appunto. Le loro.

Ovviamente stiamo parlando di inchieste e di eventuali processi di là da venire. Ma le parole intercettate che abbiamo letto, e la sconcertante arroganza che le condiscono, rimangono. Sono davvero pietre che nemmeno la più tollerante delle sentenze potrà cancellare. Esse rappresentano, al di là degli esiti penali, un’autentica biografia delle nostre classi dirigenti. Della loro protervia, del loro senso di impunità, dei loro interessi spasmodicamente difesi a danno e contro la collettività. Della pochezza con la quale occupano la scena pubblica.

Catania, più di altre realtà, paga il frutto di trent’anni di silenzi e di omissioni. Ciancio con il suo giornale ha indicato la strada, ha nascosto in maniera feroce il male che corrode la città: la commistione tra affari e politica, aperta alla partecipazione della criminalità organizzata. E quel blocco di potere resta al proprio posto: continua a schiacciarci.

Un ruolo quella de La Sicilia che si rinnova continuamente. La vicenda Basile – Mirabella a due giorni dal suo esplodere è già quasi scomparsa dalle pagine del giornale. La notizia, già Sabato 24 settembre è relegata ad un confuso pastone di poche righe. Di fatto la vicenda è svanita nel nulla.

E come se non bastasse la penna più brillante del quotidiano trova solo adesso (venerdi 23 settembre) l’inchiostro per dire che la “sospensione di Salvo Pogliese è stata una telenovela che ha tenuto in ostaggio Catania per lunghi mesi”. Peccato non averlo mai detto a tempo debito. Peccato che quel giornale abbia assecondato fino alla nausea i giochetti di Palazzo degli Elefanti. Sarebbe bastato un editoriale per porre fine a quella tragica farsa.

Lo stesso brillante cronista ci ricorda, nel pezzo già menzionato, che la “città (è) abituata a tutto, dalle inchieste sui colletti bianchi alla sospensione-fiume dell’ex sindaco. Silenziosa e rassegnata”. Già la città in quanto tale, letta e interpretata come un insieme indistinto, il più comodo degli strategemmi per coprire le responsabilità delle élite cittadine. Come se i giornalisti in primo luogo, il giornale cittadino prima di ogni altro, e gli intellettuali catanesi non avessero nessun ruolo nell’agonia della città.

Catania, una parte di essa almeno, ha parlato e continua a farlo. Basterebbe ascoltare il grido di dolore che ogni giorno si leva nei quartieri della città, il bisogno incombente, la condizione dei giovani, la povertà economica ed educativa che lacera e tormenta i ragazzi di Catania. L’oscuro lavoro di decine e decine di associazioni che ogni giorno sono al fianco degli ultimi. Nonostante tutto. Basterebbe ascoltare. E dare voce a tutto ciò. E d’incanto le nostre classi dirigenti apparirebbero ciò che sono: un insopportabile peso che la città non più tollerare.

3 Comments

  1. Tutti, anche i migliori, ricorrono alla scorciatoia della telefonata all’amico (specie se è un medico amico) : la “porta stretta” è troppo faticosa…
    Rigore e coerenza sono buoni da predicare non da praticare

  2. @ elvira Iovino, in questo caso non si tratta di telefonata all’amico.
    Basile è accusato (accusa da dimostrare, evidentemente) di aver consentito a due colleghi in pensione di adoperare strutture, attrezzature e personale di un ospedale pubblico per fare interventi chirurgici a propri pazienti privati (paganti, si suppone…).
    Non solo falso in atto pubblico (cartelle cliniche, etc) ma uso di beni pubblici, pagati con soldi pubblici, per ottenere vantaggi e guadagni privati. E poi tentatavi di corruzione e altro ancora.
    Altro che telefonata…

  3. Certamente Alba : la mia non voleva essere affatto una giustificazione e tanto meno un’assoluzione…
    Era una considerazione amarissima e dolorosa

Rispondi a Elvira Iovino Annulla risposta

Your email address will not be published.

Gli ultimi articoli - Giustizia