Emergenza abitativa a Catania, il Comune tace

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Davanti alla prospettiv dell’arrivo di consistenti fondi europei, le Amministrazioni locali si organizzano e pensano a come utilizzarli. Anche a Catania.

Sulla questione interviene oggi Giusi Milazzo, segretaria provinciale del Sunia, il sindacato unitario nazionale degli inquilini ed assegnatari.

Apprendiamo dalla stampa che il comune ha presentato all’Anci le prime proposte per utilizzare i fondi che l’Unione europea ha assegnato all’Italia per la ripresa (il cosiddetto Recovery Fund). Proposte in tutti i settori all’interno delle linee guida elaborate dal Governo nazionale.

Purtroppo l’impressione che ne ricaviamo, come Sunia, è che si tende a dimenticare, al di là di qualche enunciazione, che in questa città – anche prima delle conseguenze della pandemia – un cittadino su 4 era in stato di povertà e che il disagio abitativo interessa almeno il 20% della popolazione.

Basti pensare che sono 6000 i nuclei familiari inseriti in graduatorie per l’assegnazione di un alloggio pubblico, graduatorie che non sono aggiornate almeno da 5 anni. Nel 2019, inoltre, le richieste di esecuzione di sfratto sono state circa 2300 e 570 famiglie hanno subito uno sfratto esecutivo.

Questa è comunque la punta dell’iceberg di un fenomeno che tende a crescere se si considera che stanno aumentando oltre misura le convivenze per necessità e che la pandemia sta facendo impoverire ulteriori fasce sociali.

A differenza di Catania, dove non ci si pone nemmeno il problema, la città di Palermo – ad esempio – ha già avanzato la proposta di realizzare almeno 4000 alloggi.

Ma al disagio abitativo quantitativo si aggiunge quello qualitativo, come dimostra lo stato degli immobili di edilizia residenziale pubblica ubicati in alcuni quartieri.

Su circa 12mila alloggi quelli manutesi con regolarità sono meno del 10%, per il resto sono immobili – costruiti tra gli anni 70 e gli anni 90 – in condizioni di degrado molto rilevante.

Nonostante il tema delle periferie rientri ormai in qualsiasi programma di riqualificazione urbana, gli esiti dimostrano l’assenza di una reale attenzione al problema.

Lo si può osservare nella vicenda del palazzo di cemento a Librino e in quella della ‘spina verde’ Moncada, opere finanziate con 13 milioni di euro con una legge del 2013 e ancora non completate.

Ecco perché, in un ampio progetto di rigenerazione della città e del suo territorio, che tenga conto degli aspetti urbanistici, sociali, occupazionali e ambientali, ci sono alcune cose che non dovrebbero mancare: da una parte un’ampia riqualificazione degli alloggi e degli immobili di edilizia residenziale pubblica, dall’altra un aumento consistente dell’offerta abitativa, con alloggi pubblici o sociali a canone sostenibile, da realizzare negli immobili pubblici non utilizzati e non destinati ad altre funzioni.

In entrambi i casi bisognerebbe puntare al risparmio energetico, al decoro e al miglioramento della qualità della vita degli abitanti.

L’insediamento di nuova edilizia sociale va previsto all’interno dei centri urbani, in modo da ripopolare di residenti a lungo termine le parti della città ormai svuotate.

Potremmo infine suggerire all’Amministrazione di procedere ad una ricognizione dei fondi già disponibili anche presso la Regione, fondi che – se utilizzati assieme a quelli che potranno ancora arrivare – possono finalmente consentire una risposta forte, efficace e solidale al problema abitativo.

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