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Come nuvole di cotone

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Non è facile progettare un parco giochi con “gli occhi di un bambino” , se lo si facesse, però, il risultato probabilmente sarebbe eccellente.

Antonella Carta, docente di materie letterarie presso il liceo Boggio Lera di Catania, prova a guardare con gli occhi di un diciassettenne diversabile il mondo che lo circonda (Come nuvole di cotone, Mursia), la famiglia, la scuola, l’amore, insomma il rapporto con sé e con gli altri. Non c’è la ricerca di un lieto fine, ma la voglia di confrontarsi con la realtà, senza nascondere difficoltà e sconfitte, ma sottolineando anche i possibili punti di forza.

Il protagonista ha la fortuna di vivere e confrontarsi con una famiglia che riesce a mettersi in gioco, che ha voglia di imparare, pur avendo tanta paura di sbagliare, non a caso, talvolta, eccede nella protezione. “Dei miei che dire? Amore. Puro amore”.

Uno sforzo che si concretizza anche nella scelta di cercare un supporto esterno per superare le inevitabili contraddizioni. Come quelle vissute da Tullio, il fratello più grande, che lo accoglie con grandi difficoltà.

Sarà la psicologa, Cristella, “a consigliare a mia madre di insegnare a Tullio a giocare con me”. Il “nostro” Capitano, il riferimento non è solo a Peter Pan (ma lasciamo al lettore il gusto della scoperta), ha tutte le paure proprie dell’adolescenza, ma diremmo di ogni persona: non essere accettati, il giudizio degli altri, la gelosia…

Da piccolo, “alle elementari mi limitavo a invidiarli [gli altri bambini] per la loro normalità”. “Sono venuto così dalla sala parto e i miei obiettivi sono ridimensionati”.

La scuola, purtroppo, non sempre aiuta a trovare le giuste risposte. C’è la docente di sostegno, che avrebbe preferito insegnare Arte, e che, spesso, non trova parole e comportamenti coerenti, ci sono gli insegnanti che non vedono ciò che accade intorno a loro. Che non sanno, come dice il protagonista, che “per vedere veramente bisogna chiudere gli occhi”. Ci sono compagni indifferenti, che, magari per timore di ferire, evitano i contatti.

Ma la scuola è fatta anche da docenti che “ci credono”, che tentano di far condividere sogni e paure; che vogliono modificare comportamenti radicati sottolineando, ad esempio, che “chi è davvero forte non ha bisogno di rivalersi su chi è debole”. Docenti che, alle porte della pensione, salutano gli alunni ricordando che sono stati “il mio romanzo più bello, che non vorrei mai smettere di leggere”.

E’ fatta da ragazzi, che a partire dai loro drammi e dalle loro contraddizioni, sanno essere empaticamente vicini. Come quando il Capitano partecipa alla prima assemblea studentesca e viene preso in giro dai bulli, che non mancano mai. Ma nel momento in cui la maggioranza dei partecipanti gli si stringerà intorno, saranno i bulli a essere emarginati, stonati nel contesto. “Sai come finì? Con un’aula magna di ragazzi che ballavano e ridevano con me, non di me”.

Una scuola che non è, ovviamente, un’isola felice, immune rispetto alle contraddizioni sociali, dalla quale si può fuggire “devi finire la scuola; senza diploma oggi non hai dove andare, neanche con il diploma ormai”.

La scuola è il luogo dove possono nascere amicizie profonde e durature. Che non hanno bisogno di parole, nella consapevolezza che si può comunicare agevolmente, soprattutto se “il mio forzato mutismo mi ha reso, a poco a poco, un confidente ideale”. Che si può comunicare anche se l’altro usa “un uncino” per battere sui tasti di un computer.

Così Luce non ha difficoltà a mettersi a nudo “io sembro perfetta, ma è una maschera. E’ che ho paura di illudere i miei genitori”. Così nasce e si consolida il rapporto con Chiara, profondo e complice, in bilico tra un’amicizia disinteressata e la difficile ammissione/rielaborazione della ricerca di qualcos’altro.

Infine, il titolo del libro, se volete scoprirne il significato, leggetelo sino alla fine, ne vale la pena.

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