C’è stato un tempo, in Italia, nel quale i treni arrivavano in orario, le porte delle case non si dovevano chiudere a chiave, le paludi venivano bonificate e tutti gli italiani avevano una casa e una pensione.
C’erano pulizia e ordine, i corrotti languivano in carcere, le donne avevano, come il Paese, il loro posto al sole, e le strade, i quartieri e intere città erano nuovi di zecca.
Avrete indovinato di sicuro: stiamo riferendoci al ventennio fascista!
La perfezione, si sa, non è di questo mondo e… sì, non si era liberissimi di manifestare le proprie idee o di avanzare critiche: chi lo faceva ingoiava ricino, veniva picchiato, licenziato e se era ebreo succedeva anche di peggio.
Ma l’integerrimo e buon Duce aveva veramente a cuore il popolo italiano, l’onore della razza, e non ancora soddisfatto di aver bonificato mezza Italia, regalava agli italiani un Impero a rinverdire i fasti degli antichi Latini.
Francesco Filippi ha scritto un libro, “Mussolini ha fatto anche cose buone”, per i tipi Bollati Boringhieri, dall’eloquente sottotitolo “Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”.
Il suo obiettivo è sfatare questi miti, smantellare false credenze o, come dice lui stesso nella premessa, smentire fake news e scardinare bufale storiche. E lo fa con tutto il rigore possibile, avvalendosi di saggi storici, citando leggi, Regi decreti e rapporti del tempo.
Questo giovane “storico della mentalità” è anche il presidente di un’associazione di promozione sociale che organizza viaggi di memoria e percorsi formativi nelle scuole e università.
Il libro chiarisce come la maggior parte delle opere di cui Mussolini si prese il merito erano in realtà state ideate e avviate durante il primo decennio del XX secolo.
Per esempio, il tanto lodato sistema previdenziale fu introdotto dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck, adottato nel 1895 dal governo Crispi e poi ampliato nel 1919. Mussolini non fece altro che impossessarsi della Cassa Nazionale, fino ad allora un ente finanziario, ribattezzandola “Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale” (INFPS) e rendendola di fatto dipendente dal Partito, mastodontica e sempre meno efficiente.
Filippi dimostra inoltre che anche se molte delle opere cominciate prima del fascismo furono portate avanti durante gli anni della dittatura, i risultati si rivelarono di estrema modestia, quando non del tutto fallimentari.
La tanto sbandierata bonifica delle paludi, ad esempio, intrapresa già dagli antichi Romani e poi ripresa dal Papato nel Quattrocento e poi durante il Regno d’Italia, non dovette andare così bene se degli 8 milioni di ettari da bonificare ne fu bonificato appena il 6%.
Senza contare poi che questi risultati furono comunque provvisori: ai tedeschi, durante la guerra, bastò bloccare i canali di deflusso per vanificare tutto il lavoro compiuto nell’Agro Pontino. E la malaria venne sradicata solo nel 1970, grazie ai soldi del piano Marshall e al DDT.
Ma, detto questo, vorremmo tornare alla premessa del libro, e in particolare al paragrafo intitolato “Qual è lo scopo di dire bugie sulla storia?”
L’autore cita a proposito lo storico Marc Bloch, che scrive che nell’errore della falsità storica, “gli uomini esprimono inconsapevolmente i propri pregiudizi, gli odi, le paure, le proprie forti emozioni”.
È lo stesso Filippi a questo punto a confessare che “[s]pesso il lavoro di demolizione di falsità storiche non è utile a far cambiare atteggiamento ai diffusori di queste notizie”, seppure aggiungendo che “smontare una balla che circola su internet […] serve a chi naviga sul web per poter riconoscere e allontanare le fonti di notizie false”.
E’, certamente, un’impresa complicata, dato che oltre il 70% di coloro che condividono le notizie su Facebook non ne ha letto il contenuto. Le condividono perché attratti dal titolo, dall’immagine, dalla grafica. E’, però, un lavoro utile, perché diffondere informazioni poco conosciute permette, a chi ne ha voglia, di approfondire le proprie conoscenze, di articolare meglio riflessioni e pensiero.
Un’ultima considerazione, ma se anche Mussolini avesse inventato le pensioni e la tredicesima, con i treni di puntualità svizzera a sfrecciare per un paese immacolato traboccante di spighe di grano, a noi basterebbe anche solo l’omicidio Matteotti, per non dire delle leggi razziali, dell’invasione dell’Africa e dell’entrata in guerra a fianco di Hitler per rigurgitare anche il più piccolo sospetto di ammirazione per quest’uomo e il suo regime.
Infine, se Mussolini avesse fatto qualcosa di buono, avremmo l’onestà, noi, di riconoscerlo? O anche noi abbiamo bisogno di monolitiche certezze identitarie?
Ma la domanda che dovremmo porci è ancora un’altra: perché c’è ancora qualcuno che ha bisogno di rifarsi a questo cupo passato per credere in qualcosa, per avere certezze, mitigare le paure, esprimere la rabbia, contare qualcosa?
Bisogna anche sottolineare che durante in ventennio fascista gli italiani emigravano per cercare lavoro in America, Argentina ecc ecc perciò la pretesa verità storica che il fascismo creasse lavoro rimane una bugia storica alla quale oramai non credono neanche più i bambini.
Basta guardare le statistiche dell’epoca!