Riforma costituzionale e regioni a statuto speciale

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“Basta un sì per togliere poteri alle regioni inefficienti” è uno degli slogan della campagna organizzata dal Governo a sostegno del referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre.
Sarà che la Sicilia viene considerata dall’attuale governo una regione efficiente, in cui non si consumano sprechi e non si difendono privilegi.
O sarà che la complessità delle modifiche necessarie per intervenire sulle regioni a statuto speciale ha scoraggiato il moderno legislatore.
Nell’attuale proposta di riforma costituzionale, che prevede limitazioni ai poteri delle regioni, c’è infatti una eccezione: non vengono toccate le regioni a statuto speciale.
Eppure su queste regioni (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta), nate settanta anni fa per tutelare specificità che andavano salvaguardate, ci sarebbe oggi da riflettere e da intervenire.
In questi anni molte cose sono cambiate e la loro collocazione periferica è meno problematica rispetto al passato. Sono diventati invece un problema le inefficienze, gli sperperi e le spese facili.
L’attuale riforma costituzionale, sebbene venga presentata come un ‘ammodernamento’ che adegua la Costituzione al mutare dei tempi, non affronta il problema e lascia immutata la situazione.
Una occasione perduta perchè solo una legge costituzionale può modificare Statuti nati con leggi costituzionali.
C’è da aggiungere, come ci ricorda Ettore Palazzolo, già ricercatore e docente di diritto costituzionale nella facoltà di Giurisprudenza di Catania, che il fondamento delle autonomie speciali risiede in un articolo della Costituzione, l’articolo 116.
Si è forse temuto che un’eventuale riduzione delle competenze di queste regioni con un atto unilaterale dello Stato, cioè solo con una legge costituzionale, avrebbe provocato una miriade di ricorsi alla Corte costituzionale.
In passato lo Stato è intervenuto in ordine alle competenze delle Regioni ad autonomia speciale, ad esempio con la legge costituzionale n. 2 del 2001, ma si è trattato di un ampliamento dei poteri delle stesse, non di una riduzione.
Una limitazione di questi poteri avrebbe significato, dal punto di vista politico, per il Governo e il Parlamento, andare allo scontro frontale con ben 5 Regioni e le loro rispettive popolazioni, rischiando diversi milioni di consensi popolari.
L’alternativa possibile sarebbe stata un’intesa tra Stato e Regione, con un procedimento complesso che prevede sia l’intervento delle Regioni stesse, con legge regionale, sia delle Camere con legge costituzionale. Questo percorso non è stato seguito.
L’occasione perduta riguarda un ripensamento complessivo di tutte le autonomie locali, soprattutto di quelle di più radicata tradizione speciale, come la Sicilia e la Sardegna.
In queste regioni la gestione del denaro pubblico conferito dallo Stato non è stata certo adeguata e trasparente, non ha comportato miglioramenti in termini di servizi, sviluppo economico, welfare ma si è trasformata in occasione di sperpero clientelare, corruzione e crescita a dismisura degli stipendi del personale, particolarmente nei livelli più elevati.
E’ così apparso, particolarmente in Sicilia e all’interno dell’A.R.S. il volto peggiore della classe politica e della “casta”, che ora – con la revisione costituzionale in corso – si vorrebbe promuovere a potenziale componente del Nuovo Senato repubblicano.
Una preoccupazione confermata da Calogero Virzì, il docente e saggista che ha lavorato a più riprese sulla Costituzione, pubblicando di recente il volumetto, La Costituzione italiana. Testi a confronto dal 1948 al 2016, edito da Trevisini, di cui Argo ha già parlato, ormai disponibile nelle librerie siciliane e quindi anche catanesi.

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