Hotspot, cioè “punto caldo“. E’ la denominazione dei centri chiusi di primo approdo previsti dal piano operativo (roadmap) stilato dall’Italia per rispondere alle richieste dell’Unione Europea, che vuole che i migranti in arrivo vengano tutti identificati e non lasciati -distrattamente- allontanare verso altre mete.
Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani, Augusta, Taranto. Queste le culle dei futuri Hotspot, tuttavia ancora in gestazione. Solo Lampedusa, Pozzallo e Trapani sono partiti ma a ritmo molto lento e con pochi funzionari.
E non è detto che i tempi per renderli pienamente operativi e per attivare gli altri saranno brevi. A rendere difficile questo parto contribuiscono vari fattori e non solo la disorganizzazione per cui il nostro paese è tristemente famoso.
Proviamo a capire come è nata l’idea di queste ‘nuove’ strutture.
Il sistema di identificazione europeo si basa su due regolamenti, cosiddetti Eurodac e Dublino III.
Eurodac prevede l’obbligo di identificare tutti gli immigrati tramite fotosegnalamento e di inviare i loro dati a un database europeo entro 3 giorni dal loro ingresso nell’Unione.
Dublino III stabilisce qual è il paese competente a prendere in carico ogni richiesta di asilo. La regola generale prevede che lo Stato competente sia il primo paese in cui l’immigrato ha fatto ingresso.
Il fotosegnalamento è quindi funzionale all’applicazione di Dublino III.
Ecco un esempio. Quando un immigrato fa richiesta di asilo in Germania, il funzionario tedesco che la riceve controlla sulla banca dati europea se il migrante non sia stato fotosegnalato in un altro Stato.
Se non è stato fotosegnalato da nessuna parte, la Germania -in quanto primo paese di arrivo- è il paese competente a prendere in carico la sua domanda. Se invece il migrante risulta fotosegnalato altrove, ad esempio in Italia, la Germania lo rispedisce in Italia ed è quest’ultima ad avere l’obbligo di prenderne in carico la richiesta di asilo.
L’afflusso di migranti in Italia è stato sempre molto alto ed ha comportato notevoli difficoltà di gestione, in parte ‘risolte’ non prendendo le impronte a moltissimi immigrati, che andavano via dall’Italia senza lasciare tracce. Non risultando fotosegnalati nel nostro paese, potevano fare domanda in altri Stati europei, che erano poi quelli che volevano realmente raggiungere. L’Italia, infatti, non è mai il paese in cui la maggior parte dei migranti vuole rimanere.
Accadeva così che l’Italia, favorendo il rifiuto di queste persone ad essere fotosegnalate, si sgravava dall’impegno di prendere in carico le loro domande e, nel frattempo, la volontà di questa povera gente veniva compiuta!
Alla lunga questo escamotage non poteva durare e la Commissione Europea, il 10 dicembre 2015, ha messo in mora l’Italia per mancato adempimento delle disposizioni UE in materia di fotosegnalamento, primo passo verso la formalizzazione della procedura di infrazione.
Il tentativo di soluzione proposto all’Italia dall’Unione Europea si può riassumere, in soldoni, così: “se smettete di fare i furbi e identificate tutte le persone che arrivano nel vostro paese, io ve le ricolloco tra tutti gli Stati membri in modo che il carico delle domande sia meglio distribuito tra tutti e voi non dobbiate sobbarcarvi un carico di domande che evidentemente non riuscite a gestire”.
L’Italia ha dovuto stilare quindi un piano operativo per garantire l’identificazione di tutti i migranti. E’ all’interno di questo piano che compaiono gli hotspot, strutture che però non si fondano su nessuna base giuridica chiara e non sono previste dal decreto legislativo 142/2015 che regola l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e le procedure per il riconoscimento della stessa.
Sulla carta gli hotspot dovrebbero fungere da “luoghi di smistamento”. Al loro interno si dovrebbero effettuare: screening sanitario, registrazione, fotosegnalamento, rilievi dattiloscopici, interviste da parte di funzionari degli uffici immigrazione per individuare coloro che intendono chiedere asilo.
Conclusa questa fase, i migranti dovrebbero essere: trasferiti nei centri di accoglienza se devono formalizzare la domanda di asilo, trasferiti in un CIE per essere espulsi se non chiedono protezione, ricollocati in altri paesi europei.
Qui casca l’asino, perchè non è ancora stato previsto nessun piano di ricollocazione. E finchè non parte la ricollocazione, non partono in modo completo neanche gli Hotspot…molti dei quali infatti non sono ancora attivi.
Negli Hotspot dovrebbe svolgersi il momento più delicato e decisivo per le vite di queste persone: manifestare la volontà di chiedere asilo, oppure no. Chi dovrebbero essere esattamente i funzionari competenti a spiegare questa procedura ai migranti e soprattutto come esattamente potranno distinguere i richiedenti asilo dai cosiddetti migranti irregolari da spedire nei CIE?
Come si legge a questo link, i funzionari che intervistano i migranti sono 2 o 3 impiegati dell’EASO (European Asylum Support Office) per ogni Hotspot, insieme a funzionari dello Stato che non si capisce chi siano esattamente. Comunque troppo pochi per il numero di persone che dovrebbero sentire
Una volta messi a regime, gli hotspot saranno inoltre luoghi chiusi in cui difficilmente sapremo cosa succede.
Come se non bastasse circolano numerose notizie di decreti di respingimenti consegnati allo sbarco, provvedimenti illegittimi perchè assolutamente vietati da qualunque diritto e che inducono ad interrogarsi sulla opportunità di lasciare alla questure, in questo ambito, una discrezionalità così ampia.
Non trascurabili i problemi che nascono dal fatto che spesso neanche chi lavora in questo settore conosce bene il regolamento europeo.
Basti prendere in considerazione il problema dei ricongiungimenti con familiari residenti in paesi diversi da quello in cui il migrante sbarca. Considerati impossibili, sono invece previsti a determinate condizioni.
Nel caso di un minore, il regolamento Dublino prevede che lo Stato competente a riceverlo sia quello dove si trova un suo familiare.
Se il migrante ha un familiare richiedente asilo o beneficiario di protezione internazionale in uno Stato membro, lo Stato in cui risiede quel familiare sarà competente a ricevere la sua domanda di protezione.
Per fare questo però, è necessario che il familiare del richiedente esprima per iscritto il desiderio di ricongiungersi al richiedente. Un passaggio necessario di cui gli interessati dovrebbero essere informati.
E’ prevista anche una tutela per le famiglie. Ci sono quindi delle possibilità di intervento, seppur difficili da percorrere, che – per essere praticate- richiedono una conoscenza approfondita del regolamento.
Questo non significa che il regolamento vada bene così com’è. Tutt’altro! Parallelamente alla battaglia per cambiarlo sarebbe molto importante utilizzare, ogni qualvolta è possibile, le opportunità oggi percorribili.
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