Nonostante i proclami del governo, anche quest’anno l’inizio dell’anno scolastico presenta i problemi di sempre. Classi senza docenti, assenze nel personale ATA, strutture e locali inadeguati e pericolosi.
Almeno duemila studenti delle scuole superiori catanesi il 9 ottobre, così come è avvenuto nelle altre città italiane, hanno manifestato contro tutto questo partecipando ad un corteo partito da piazza Roma e concluso in piazza Duomo.
In testa tre studenti che spingevano, ognuno, un carrello della spesa con all’interno le “macerie della scuola pubblica”.
Macerie materiali, visti i danni prodotti dalla pioggia dei giorni scorsi in molti, troppi, istituti. Macerie ‘culturali’ perché la legge 107/15 ha ulteriormente accentuato la trasformazione delle scuole in aziende, aumentando il potere dei dirigenti scolastici (in un cartello si leggeva “se il preside è sceriffo, sarà far west”) ed esasperando, attraverso l’introduzione dei bonus economici, la competizione fra i docenti.
Con molto buon senso, i ragazzi, negli interventi finali, hanno ribadito l’importanza di un clima cooperativo nelle scuole e la richiesta di non essere addestrati, ma aiutati a crescere in modo autonomo e con spirito critico.
Quello spirito critico che li fa guardare con grande preoccupazione al futuro, se il futuro è, soprattutto, lavoro precario e possibile emigrazione.
Decisamente complicato il rapporto con le istituzioni, accusate di promettere e di non mantenere. Non a caso i tre carrelli con le macerie sono stati portati sino all’ingresso principale del palazzo di Città. A conferma del fatto che nessuna interlocuzione è possibile con chi non è in grado di garantire una reale, e sicura, fruizione del diritto allo studio.
Un corteo tranquillo, festoso e con contenuti ben precisi, dunque. Un’ultima considerazione: per comunicare le proprie idee è necessario usare slogan ed espressioni tipiche della ‘cultura degli stadi’? Se si vuole cambiare la realtà e costruire un altro futuro, questa volontà di rinnovamento, questa rabbia, non dovrebbero essere espresse con un linguaggio che ripropone stereotipi e discriminazioni.
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