Nelle intenzioni voleva essere la rappresentazione della grande figura di De Felice Giuffrida e del suo ambizioso progetto di modernizzare Catania per farne la ‘Milano del sud’.
In effetti si è rivelata come la raffigurazione di una classe politica locale nel suo complesso meschina, rissosa, clientelare e faziosa ma soprattutto incapace di mettere riparo al disordine amministrativo, alla cronica mancanza di risorse, ai debiti in continua crescita e al conseguente dissesto finanziario che affliggeva in modo permanente il bilancio comunale (cose d’altri tempi!).
Nei circa trenta anni di storia della città, fra il 1885 e il 1916, che Giuseppe Astuto ricostruisce col suo ultimo lavoro, Il viceré socialista. Giuseppe De Felice Giuffrida sindaco di Catania (Bonanno Editore, 2014), ciò che più colpisce è il numero abnorme di sindaci, giunte municipali, crisi amministrative, episodi di corruzione, pesanti ingerenze prefettizie e quindi governative, invio di ispettori ministeriali, scioglimenti di Consigli comunali e commissariamenti che sembrano costituire la trama essenziale della vita politica catanese: trenta sindaci in trenta anni, 8 scioglimenti anticipati del Consiglio comunale, 8 commissariamenti e 12 elezioni per il suo rinnovo.
Queste cifre da guinness testimoniano in modo eloquente la miserabile pochezza dei politicanti locali che fa il paio con la straripante interferenza dei governi nazionali, attraverso le invadenti figure dei prefetti/ispettori, sulle amministrazioni comunali.
A confronto delle giunte ‘semestrali’, giganteggiano per durata quelle riconducibili, direttamente o indirettamente, a De Felice (4 e 2 anni) e ai suoi alleati Antonio Sapuppo Asmundo (4 anni), Santi Consoli e Luigi Macchi (3 anni), Gaetano Majorana (2 anni). Da sole ricoprono una buona metà del periodo considerato.
Un secondo elemento colpisce l’attenzione del lettore: la strutturale debolezza finanziaria degli enti locali, stretti nella morsa di un soffocante accentramento amministrativo e di un insostenibile decentramento finanziario.
Ai comuni sono addossati gli oneri per infrastrutture (strade e ferrovie) e per la gestione dei servizi primari (polizia e pubblica sicurezza, igiene, istruzione, beneficenza), a fronte di entrate locali decisamente sottodimensionate oltre che fortemente sperequative in quanto poggianti in prevalenza sui dazi commerciali e al consumo (gestiti comunque molto male) e, solo in parte, sulla sovraimposta fondiaria comunale. Naturalmente fanno la loro parte anche il disordine amministrativo, gli sprechi e gli sperperi clientelari.
Il risultato è un deficit insostenibile e persistente delle finanze locali, per ridurre il quale le amministrazioni sono costrette a contrarre onerosi mutui che generano sempre nuovo indebitamento e impediscono di dislocare risorse sufficienti per il miglioramento della qualità della vita nelle città.
E’ questo il muro invalicabile contro cui si fermerà, almeno in parte, il disegno di modernizzazione di cui si fa portatore De Felice Giuffrida, uno dei pochi politici capaci di leadership e di progettualità che abbia espresso la nostra classe politica.
Dopo la grande e drammatica avventura del Fasci siciliani (1892-1894), è soprattutto nel primo decennio del ‘900 che riesce a concretizzare a Catania il suo programma di rinnovamento politico e amministrativo che si impernia sul coinvolgimento democratico delle masse popolari e sulla attribuzione al Comune di un ruolo attivo nelle vicende economiche, collegando “l’attività amministrativa agli interessi commerciali e imprenditoriale della città.”
Era il progetto ambizioso e innovatore di un’amministrazione comunale dinamica che, investendo nella creazione di infrastrutture e di servizi municipalizzati, favorisse gli investimenti privati e lo sviluppo industriale.
Ma si trattava di una ‘modernizzazione difficile’, come è stata definita dagli storici, che si scontrerà, come abbiamo detto, con le rigidità di bilancio e le precarie condizioni finanziarie del Comune, con le contraddizioni di una società ancora non pienamente capitalistica, con la fragilità della base sociale su cui poggiava il defelicianesimo, con la “resistenza della grande proprietà e dei detentori locali di rendita”, ma anche con la fine della favorevole congiuntura economica giolittiana sia nazionale che locale, dove, in particolare, cominciava la sua parabola discendente il miracolo del monopolio della produzione dello zolfo raffinato.
“Tra il progetto e la sua esecuzione vi fu un forte scarto”, conclude Astuto, sfuggendo al rischio di una non oggettiva mitizzazione del personaggio, che pure tira molto in quella direzione.
Resta comunque il fatto che molti dei progetti, soprattutto riguardo all’urbanistica e alla municipalizzazione dei servizi essenziali, sono stati in seguito ripresi e realizzati, a riprova del loro giusto orientamento, ma resta soprattutto nella memoria dei catanesi il ricordo di un personaggio che con la sua travolgente oratoria e la personale generosità, sapeva ancora suscitare ‘passioni politiche’.
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De Felice è di fatto il Sindaco storico di Catania. Uomo onesto e combattivo. Socialista e libertario. Dedicò la sua vita per costruire una Catania civile, libera e democratica.
A fianco, sempre, dei poveri e degli sfruttati. In una fase storica a Catania caratterizzata dall’estrema indigenza della stragrande maggioranza della popolazione, e dallo sfoggio degli enormi lussi di nobili e “nobilotti” di varie specie.
Fu uno degli artefici principali della costruzione alla fine dell’ottocento del grande Movimento di riscatto, politico, sindacale e socialista, sorto in Sicilia con la partecipazione di centinaia di migliaia di lavoratori, uomini e donne, – debellato con l’utilizzo della repressione più brutale da parte della Monarchia – dei “Fasci Siciliani”. Ricorre quest’anno il 120° anniversario.
la storiografia locale e nazionale ha dimenticato De Felice o comunque ne ha oscurato la figura perchè responsabile di una grave colpa: non faceva politica per arricchirsi. E’ nato povero ed è morto povero. La sua eredità è costituita da un tavolo di lavoro; una sedia a dondolo ed un quadro che gli ha regalato il Banco di Roma raffigurante De Felice sttorniato da quattro figure femminili . Il quadro ha un titolo: apoteosi di De Felice. E’ stato realizzato dal pittore Alessandro Abate.I politici attuali e l’attuale classe dirigente al confronto fa orrore. Sono ignoranti, miseri, modesti e…..ladri.
Ha scritto Leonardo Sciascia, nel saggio “Del dormire con un solo occhio”, dedicato alla figura di Vitaliano Brancati, che “la catena delle avversioni tra siciliani è piuttosto lunga”. E ricorda il giornalista di punta del fascismo e antisemita Telesio Interlandi che non amava Giovanni Gentile, e poi il più o meno volontario ignorarsi tra Crispi e Di Rudinì, tra Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi, il “non incontrarsi” di Vittorini e Brancati negli anni dell’immediato secondo dopoguerra. Acuto osservatore di eventi marginali ma significativi, racchiusi entro le pieghe della storia, qui Sciascia dimentica la rivalità tra il politico di Ribera Francesco Crispi e il politico di Catania Giuseppe De Felice Giuffrida, nata nel contesto della drammatica vicenda dei Fasci siciliani (1892-1894), sulla quale ancora oggi i manuali di storia diffusi nelle scuole nulla o poco dicono. Organizzatore della spedizione dei Mille e mente politica della dittatura garibaldina nel Meridione, poi deputato della Sinistra dal 1861, Crispi si allontana progressivamente dal mazzinianesimo fino a diventare convinto monarchico. Negli anni in cui dirige il suo secondo ministero, Crispi si distingue per la violenta repressione dei Fasci siciliani, che ha tra i suoi ispiratori e capi G. De Felice Giuffrida, N. Barbato, R. Garibaldi Bosco, B. Verro, N. Petrina. Esponenti appassionati e combattivi agli albori del socialismo italiano, i dirigenti e organizzatori dei Fasci riescono a coinvolgere nelle battaglie per condizioni di vita più umane e dignitose i ceti subalterni dell’Isola che protestano contro il malgoverno locale, le tasse esose e chiedono terre da coltivare per i contadini e patti agrari meno iniqui. L’azione dei Fasci tocca il culmine nell’estate del 1893, quando vengono stabilite le condizioni da sottoporre alla parte padronale per il rinnovo dei contratti di mezzadria e di affitto. Nei mesi seguenti scioperi e violenti scontri sociali si diffondono ovunque. Nominato Presidente del Consiglio nel dicembre del 1893, in un primo momento Crispi pensa di poter riportare la calma in virtù del suo prestigio e con la promessa di provvedimenti, ma poi la situazione sfugge al controllo dei capi del movimento fino a sfiorare l’insurrezione a causa anche della mancanza di risposte governative. Di lì a poco, il 3 gennaio del nuovo anno, appoggiato dalla maggioranza del Parlamento e pressato dall’opinione pubblica borghese, il governo nazionale proclama lo stato d’assedio. G. De Felice Giuffrida (nonostante sia deputato) e altri dirigenti del movimento vengono arrestati e deferiti ai tribunali militari, che nel giro di pochi mesi emettono dure condanne: diciotto anni di carcere a De Felice Giuffrida, “onorato dall’odio personale di Crispi”, perché “ritenuto il capo dei Fasci e della cospirazione” (come scrive Giuseppe Astuto nel recente e assai documentato volume “Il Viceré Socialista. G. De Felice Giuffrida sindaco di Catania”, Bonanno editore, dopo il quale è ora più agevole allestire sul politico catanese una biografia redatta con criteri moderni e storicamente affidabili ), dodici a Bosco, Barbato e Verro. A chi in quegli anni lesse in chiave localistica la battaglia combattuta e perduta dai contadini siciliani, sfuggì che la sera del 3 gennaio 1894 insieme alla storia dei Fasci siciliani si concludeva il progetto di costruzione di una società italiana più giusta, come si coglie nelle parole di G. De Felice Giuffrida, che confutano l’accusa di eccitamento alla guerra civile : “Se in mezzo a noi ci fosse stato un solo capace di eccitare alla guerra civile, noi lo avremmo cacciato dalle nostre fila perché la nostra bandiera non è odio, ma splendida luce e di amore per tutti. Se avessimo voluto eccitare alla guerra civile, ognuno avrebbe agito nella cerchia della propria influenza. Noi dunque se responsabilità abbiamo, è quella di avere con nobili parole predicato ai lavoratori una nuova forma economica e politica che cammina con la civiltà”. Ma stridono anche con la visione socialmente ristretta dello Stato di Crispi, che vede nelle rivendicazioni sociali una minaccia all’unità della nazione e pertanto ritiene che solo alla borghesia e non alle masse spetta svolgere un ruolo attivo nella vita politica e nei processi decisionali. La data del 3 gennaio 1894 segna perciò una sconfitta della democrazia, del socialismo e del movimento operaio. Una cocente umiliazione della Sicilia e dell’intera nazione, se è vero che la flebile indignazione per i cruenti fatti di sangue isolani non è paragonabile alla reazione morale del paese di fronte alle cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris contro i milanesi che nel maggio del 1898 protestavano per il carovita.
LORENZO CATANIA