L'Orestea a Siracusa, una speranza per uscire dal caos

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E’ un messaggio molto attuale quello che ci viene dall’Orestea di Eschilo, rappresentata in questi giorni al teatro greco di Siracusa. Ce ne parla Paolo Bozzaro, psicologo dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catania, da cui abbiamo ricevuto questo contributo che volentieri pubblichiamo.
Nel centenario della sua fondazione l’Istituto del Dramma Antico propone quest’anno al Teatro Greco di Siracusa (fino al 22 giugno) l’intero ciclo dell’Orestea. Due regie diverse (Luca De Fusco per l’Agamennone, Daniele Salvo per Coefore ed Eumenidi), con ritmi narrativi e interpretativi opposti, ma che trovano una felice complementarietà nello sviluppo complessivo della storia, reso unitario dalla persistenza degli stessi moduli scenografici, curati da Arnaldo Pomodoro, e dalla fruibilità dei testi, tradotti con efficacia da Monica Centanni.
E’ innegabile che la rappresentazione in sequenza delle tre opere di Eschilo costringa lo spettatore ad un particolare sforzo di attenzione e di partecipazione emotiva. Ma ne vale la pena.
La tragica storia intergenerazionale, che avvolge in una spirale di sangue e di vendetta la famiglia degli Atridi scardinando violentemente il senso e il significato dei legami familiari, così come sono sedimentati nell’esperienza collettiva, coinvolge anche il pubblico, in un crescendo di sensazioni e di emozioni, che l’abilità drammaturgica di Eschilo (e la bravura degli attori in scena) riesce a modulare sapientemente fino alla risoluzione finale.
Dopo l’intensa esposizione a sentimenti angoscianti e primitivi, l’espediente narrativo della trasformazione delle Erinni, (dee della vendetta), in Eumenidi (dee benevole dello sviluppo) non svolge soltanto una funzione di liberatoria catarsi.
Contiene nell’atto la sintesi del messaggio che Eschilo vuole lasciare al suo pubblico: solo attraverso l’affermazione della giustizia può essere ristabilito l’ordine violato.
Un lieto fine che gli Ateniesi del 458 a. Cr. apprezzarono platealmente se tributarono ad Eschilo, per questa trilogia, la tredicesima vittoria della sua lunga carriera.
La tensione drammatica e quella morale, in effetti, nell’Orestea sono strettamente connesse.
Eschilo – il più religioso tra i tragici greci conosciuti – pur partecipando intensamente al pathos delle vittime, non si spinge (come farà Euripide) a mettere in discussione la volontà degli dei, anche quando essa appare arbitraria e irrazionale.
Eschilo rispetta il pantheon politeista della tradizione, ma vi porta dentro uno spirito religioso più profondo. La volontà di Zeus va rispettata, perché nella sua suprema autorità sulle vicende degli dei e degli uomini, trova fondamento la speranza di uscire dal caos e di riportare l’ordine e la giustizia.
Una giustizia che non tiene conto (apparentemente) delle scelte e delle azioni individuali e che assegna sofferenze e punizioni secondo criteri di appartenenza ad una stirpe, ad una famiglia.
Dico apparentemente perché in effetti Eschilo nelle sue tragedie – e l’Orestiade ne è la prova più alta – tiene in considerazione le azioni dei suoi personaggi e ne valuta sempre la corresponsabilità.
Se è vero che Agamennone espia le colpe dei suoi antenati (Atreo, che aveva ucciso i figli del fratello Tieste, li aveva fatti a pezzi e imbanditi come cibo al padre ignaro), anch’egli ne ha commesso di proprie. Uccidere la figlia Ifigenia, come vittima sacrificale, per ingraziarsi gli dei e ottenere venti favorevoli per la navigazione della flotta verso Troia, è un delitto atroce del quale si macchia consapevolmente…
Anche Clitemnestra, se pure spinta dalle Erinni vendicatrici a uccidere il marito Agamennone, è colpevole, oltre che del delitto, di averlo tradito con Egisto.
Oreste, pur affermando di compiere il matricidio su ordine di Apollo, si macchia comunque di una colpa nefanda che solo l’intervento risolutore di Atena infine cancellerà.
E il peccato originario che tutti ripetono è sostanzialmente lo stesso: un peccato di ‘ubris’, di arroganza, che consiste nella violazione di un limite, di una legge, naturale o divina, che non doveva essere violata.
Giustizia, per Eschilo, significa ripercorrere, anche attraverso la sofferenza, gli atti e i comportamenti che hanno portato alla violazione dell’ordine, riconoscerli e accettarne l’espiazione. “Soffro per quanto ho fatto – dice Oreste dopo l’uccisione della madre – soffro per il dolore inferto, soffro per tutta la mia stirpe. Questa vittoria è infetta: porto addosso un contagio che nessuno potrà invidiarmi”.
Eschilo sa anche di svolgere un ruolo importante, in quanto artista e drammaturgo, nei confronti della collettività ateniese, un ruolo strettamente legato alla funzione strategica che aveva il teatro nella polis del V secolo.
Agli spettacoli, che si svolgevano in precise occasioni di festività religiose (le Grandi e le Piccole Dionisie, le Lenee, le Antisterie), partecipava tutta la collettività. Ai più poveri veniva perfino concesso per ogni giorno di spettacolo un apposito tributo, come indennizzo per il lavoro mancato, in modo che potessero partecipare senza problemi agli spettacoli.
Gli autori appartenevano a ceti sociali e famiglie importanti. I messaggi che trasmettevano attraverso le messa in scena di storie drammatiche non avevano solo la funzione ‘catartica’ di cui parlerà Aristotele, ma anche quella ‘educativa e politica’ di indicare una certa linea di pensiero e di comportamento, tenendo conto del contesto politico e sociale del momento.
E segnali dell’attenzione di Eschilo alla delicata situazione politica di quegli anni, caratterizzata all’interno dal violento contrasto tra il partito democratico, guidato dal giovane Pericle, e gli esponenti aristocratici dell’Aeropago.
Riferimenti alla politica estera di Atene, e alla sua alleanza con Argo contro Sparta, emergono chiaramente da alcuni elementi della ‘sceneggiatura’ dell’Orestea. Più volte il coro inneggia all’alleanza con Argo, che il poeta si augura possa durare in eterno, e di Argo era stato sovrano, nel mito, quel Tieste, fratello di Atreo, con il quali inizia la maledizione della stirpe.
Nella scena finale delle Eumenidi per giudicare il comportamento di Oreste vengono convocati dalla dea Atena i membri dell’Aeropago. Il verdetto paritario al quale arrivano i giudici crea un ultimo brivido di suspence, che il voto di Atena felicemente dissolve. Ma che Eschilo volesse in questo modo rendere omaggio ad un istituto della giustizia che in quegli anni andava decadendo e riabilitarne la funzione abbiamo tutti gli elementi per pensarlo.

1 Comments

  1. Ho molto apprezzato la recensione del collega e amico Paolo Bozzaro sull’Orestea, anche se mi permetto di dissentire solo sul ‘lieto fine’…
    Riguardo il finale delle Eumenidi, mi pare che Eschilo – non so quanto consapevolmente – abbia messo una nota di ridicolo sulla giustizia: Atena crea il tribunale in cui gli uomini devono decidere “perché su delitti così complicati non bastano gli dei a decidere”(!); Apollo passa da istigatore del matricidio ad avvocato di parte (la resa del regista dello spettacolo siracusano ha accentuato questa nota di ridicolo); le Erinni dopo aver fatto un casino sulle colpe di Oreste e aver minacciato sfracelli all’umanità, alla fine si accontentano del posto di sottogoverno delle divinità offerto dalla furba Atena e si calano quasi contente nel nuovo ruolo di Eumenidi; ma soprattutto, a parità dei voti del tribunale umano proprio il voto della divinità fa pendere la bilancia dalla parte giusta… ma giusta per chi?
    Io l’altra sera a teatro ho riso molto su questo finale, e credo che il fantasma di Eschilo abbia riso altrettanto!
    Santo Di Nuovo

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