A molti sarà accaduto, anche solo per ritirare un pacco non recapitato, di dover andare, col buio, alla Zona industriale di Catania e perdersi regolarmente nei meandri di viali e controviali privi di segnaletica e con scarsa illuminazione, spesso segnati da grandi spazi vuoti o dalla sinistra presenza di capannoni abbandonati e in disfacimento che intervallano gli insediamenti ancora in produzione.
Quella che negli anni Sessanta era il simbolo della nuova ‘Milano del sud’, oggi appare come l’emblema di una città senza identità, ripiegata su se stessa e che stenta ad uscire da una ormai troppo lunga fase di declino economico e culturale.
Ma qual è lo stato della situazione?
Proviamo a ricostruirlo per grandi linee, utilizzando i dati di un censimento realizzato nel 2011, proprio nella fase di commissariamento che stava portando allo scioglimento dell’ASI (Consorzio per l’Area di sviluppo industriale) che sarebbe confluito nel costituendo unico Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive (IRSAP), varato poi con la LR n. 8 del 12 gennaio 2012.
Un’area di 2000 ettari, sulla quale sono insediate 492 aziende, il 55% delle quali del comparto industria e artigianato (per il 42% commercio e servizi). Esse danno lavoro a poco meno di 17.000 persone, il 91% delle quali con contratto a tempo indeterminato.
Si tratta in prevalenza di aziende medio-piccole, d’altronde in linea con la vocazione iniziale di questo sito industriale, il cui fatturato, per il 69%, non supera il milione di euro. Solo 15 fatturano oltre 1 milione di euro e 16 superano i 2 milioni.
Una realtà non piccola, e certamente vitale per l’asfittico mercato del lavoro catanese ma che non esprime tutte le grandi potenzialità che ancora oggi potrebbe esprimere questo comparto. Da considerare, comunque, che a queste cifre vanno aggiunte quelle riguardanti le altre due aree di Belpasso/Piano Tavola e Paternò.
Recentemente il rilancio della Zona industriale è tornato agli onori della cronaca attraverso un dibattito ospitato da un quotidiano locale e ruotante attorno alla proposta di concedere gratuitamente i lotti vuoti o dismessi a imprenditori desiderosi di insediarsi in terra etnea.
Al momento del censimento erano stai assegnati 42 nuovi lotti (altri 5 erano in corso di assegnazione), per complessivi 41,7 ha, ma solo 30 assegnazioni sono andate in porto mentre 8 erano state revocate, 1 era in fase di revoca e 3 in contenzioso. Altre 19 richieste erano pervenute, per 28,3 ha.
Anche se si tiene conto delle difficoltà di assegnare i lotti proteggendosi dalle richieste puramente speculative, quando non di dubbia legalità, come dimostra l’alto numero di revoche, sicuramente non si tratta di cifre importanti, a fronte della effettiva disponibilità.
Ma perché un’azienda dovrebbe smaniare per aprire uno stabilimento a Catania?
Il territorio che allora fu prescelto, Pantano d’Arci, presentava e presenta appunto, essendo un ex pantano, grossi problemi di gestione delle acque piovane, che potevano essere tenuti sotto controllo con un’oculata conduzione delle opere idrauliche, che non sempre è stata all’altezza della questione.
Dal punto di vista della mobilità esterna, invece, col tempo la località si è trovata al centro di una rete di strutture, come l’interporto, la tangenziale e l’asse dei servizi, che la mettono in veloce comunicazione con le autostrade, il porto, l’aeroporto e la rete ferroviaria.
Lo stesso censimento, però, ha rilevato un giudizio drasticamente negativo su molti servizi interni, come quelli relativi appunto alla mobilità e alla gestione dei rifiuti, oltre che una domanda molto pressante di altri servizi di cui si avverte la mancanza, come le infrastrutture tecnologiche, la sicurezza e i servizi alle persone.
Tutti aspetti che, in teoria, dovrebbero ricadere sul neonato IRSAP ma per i quali esso non sembra possedere le necessarie disponibilità finanziarie, per cui rischia di reiterare gli stessi limiti che hanno caratterizzato in negativo la gestione delle ASI.
Ci sono delle vie di uscita da questa situazione di stallo che obbliga le imprese a pagare contributi per servizi che non ricevono o che ricevono in modo insoddisfacente?
Una potrebbe essere quella di scorporare le competenze, legando quelle dell’IRSAP solo alla elaborazione di strategie industriali, alla consulenza per l’accesso ai finanziamenti pubblici e comunitari e alla promozione del sistema delle imprese.
Si dovrebbe, per contro, affidare la gestione ordinaria del territorio (viabilità, segnaletica, illuminazione pubblica, gestione dei rifiuti, …) a competenze più definite, come le nascenti strutture delle aree metropolitane, i consorzi di bonifica per quanto riguarda la gestione delle acque piovane, le forze dell’ordine e gli stessi insediamenti industriali per le questioni concernenti la vigilanza e la sicurezza.
Tutto ciò, probabilmente, comporterebbe un passo indietro della politica e una maggiore responsabilizzazione dei tecnici, ma la recente polemica innescata dal modo con cui sono stati scelti i membri del Consiglio di amministrazione dell’IRSAP non lascia ben sperare.
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