Dove va a finire il pane che resta invenduto del nostro panettiere di fiducia? E gli invitanti prodotti che restano nel bancone di quella rosticceria da cui spesso siamo tentati? E le buste di insalata che il supermercato del nostro quartiere non riesce a smaltire?
Possiamo immaginare che molto spesso vadano a finire semplicemente nella spazzatura. Sappiamo però che alcune strutture assistenziali operanti a Catania, attraverso dei semplici accordi diretti con i negozianti del quartiere in cui operano, riescono, anche con questi ‘resti’, ad assicurare dei pasti decorosi alle persone di cui si prendono cura.
Certo non saranno queste piccole e localizzate esperienze che risolveranno il problema dello spreco alimentare, recentemente messo in rilievo in tutte le sue impressionanti dimensioni dai rapporti della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. Solo per quantificare meglio il fenomeno a livello macro, basta sapere che degli 840 chilogrammi di cibo che vengono prodotti ogni anno per un cittadino europeo, 560 vengono mangiati, gli altri 280 vanno sprecati
Ancora una recente ricerca –Dar da mangiare agli affamati. Le eccedenze alimentari come opportunità, a cura di Garrone Paola, Melacini Marco e Perego Alessandro, edita da Guerini e Associati- ha rilevato nella filiera agroalimentare italiana (dai campi ai consumatori finali) un’eccedenza annua di 6 milioni di tonnellate di cibo (pari al 17,4% dei consumi), il 92% del quale viene di fatto buttato via.
Secondo la FAO, con tutto il cibo che sprechiamo potremmo sfamare il triplo degli 870 milioni di persone che nel mondo soffrono la fame. Se poi aggiungiamo la terra, l’acqua, l’energia, il denaro e il lavoro che sono stati impiegati per produrlo e distribuirlo e il denaro che abbiamo speso per acquistarlo, arriviamo a cifre da capogiro.
E’ possibile contrastare questa tendenza? La piccola esperienza citata all’inizio sta a dimostrare che non si tratta di un fenomeno ineluttabile e indica un metodo possibile, che innanzitutto consiste in un cambiamento dei nostri comportamenti, a cominciare da quelli quotidiani e familiari. Tuttavia sappiamo che ciò non può bastare, trattandosi di un fenomeno ormai globalizzato al quale è necessario dare una risposta ben più organizzata.
Anche a Catania, ad esempio, è presente fin dal 1995 l’esperienza del Banco Alimentare, la cui sede operativa si trova a Valcorrente (Belpasso) ma che, in effetti, copre le necessità di sette province della Sicilia orientale.
Si tratta della filiazione locale dell’organizzazione più nota al grande pubblico come promotrice della Giornata nazionale della Colletta alimentare che si svolge ogni anno a fine novembre, ma che raccoglie e redistribuisce, attraverso una rete di magazzini propri, anche le eccedenze provenienti dalle industrie del settore e dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO), e i prodotti dell’eccedenza agroalimentare finanziati dal Programma Europeo di Aiuto Alimentare ai Bisognosi (PEAD), che in Italia sono gestiti in Italia dall’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura).
Collegata ad esso, dal 2003, è operativo il programma ‘Siticibo’ che, applicando la legge 155/2003 (cosiddetta del Buon Samaritano), si prefigge di recuperare il cibo cotto e fresco che si produce in eccedenza nella ristorazione organizzata (hotel, mense aziendali e ospedaliere, refettori scolastici, esercizi al dettaglio, etc.). Dal 2009 Siticibo recupera pure dal canale della GDO una vasta gamma di prodotti freschi per vari motivi non più commerciabili ma ancora buoni da consumare.
Non è presente invece a Catania Last Minute Market è una società che nasce nel 1998 come attività di ricerca all’interno della Facoltà di agraria dell’Università di Bologna e che dal 2003 è diventa una realtà imprenditoriale presente soprattutto nel centro-nord.
Essa non gestisce direttamente i prodotti invenduti, non ha magazzini né mezzi propri per il ritiro ma si pone, per così dire, come intermediaria tra “domanda” e “offerta”, offrendo servizi di consulenza e di progettazione volti al recupero dei beni invenduti o non commercializzabili – prodotti alimentari, eccedenze di attività commerciali e produttive, prodotti ortofrutticoli non raccolti e rimasti in campo, pasti pronti recuperati dalla ristorazione collettiva- e alla loro donazione a favore di enti caritativi.
La struttura catanese del Banco Alimentare, per conto suo, è riuscita a recuperare dai vari canali, secondo i dati del 2012, oltre 5 mila tonnellate di cibo che redistribuisce a 638 strutture caritative accreditate, per un numero di persone assistite che sfiora le 200 mila unità, metà circa delle quali nella sola provincia etnea.
Nel 2012 ha utilizzato però gli aiuti europei per il 73,4% dei suoi approvvigionamenti, mentre per il resto ha attinto all’industria alimentare e alla GDO (15,5%), ad alcuni grossisti dell’ortofrutta (4,4%) e ai proventi della Colletta Alimentare (6,7%). Il suo rapporto con la GDO è tuttavia attivo solo con i magazzini centrali di due grandi catene e di altre di minore importanza.
Attività certamente benemerita ma che, da qui alla fine dell’anno, sarà messa in seria difficoltà dalla prossima conclusione del Programma Europeo, difficoltà che saranno accentuate dal fatto che nella realtà siciliana, ma anche meridionale in genere, l’attività collaterale di Siticibo non è ancora decollata, se non per piccoli esperimenti molto circoscritti, e non sarà comunque facile farla partire in tempi brevi, dato che ciò comporta un radicale cambiamento dell’attuale organizzazione, della tipologia di prodotti recuperati, dei tempi del loro ritiro e della loro redistribuzione.
Siticibo, infatti, presuppone un rapporto più stretto fra le singole strutture caritative e i punti vendita di vicinato, e quindi la disponibilità di strumenti di conservazione, mezzi di trasporto e di una rete di volontari disponibili che, allo stato attuale, è quasi tutta da inventare. Rispetto a questa nuova realtà il Banco Alimentare dovrebbe configurarsi maggiormente come ‘mente organizzativa’ di una trama più complessa di rapporti tra ‘donatori’ ed enti assistenziali e caritativi.
Il compito è dunque gravoso, eppure più che mai necessario, se è vero che le povertà -vecchie e nuove- sono in costante crescita.