Il 13 giugno alla Camera del Lavoro di Catania, è stato presentato l’ultimo libro di Antonio Sciotto, “Vestivano alla marinara”, storia della FIAT dalle origini a Marchionne, Editori Internazionali Riuniti. Un lavoro che ricostruisce la storia del più importante gruppo industriale italiano, identificatosi con una famiglia, gli Agnelli, che come scrive l’autore: “ha colmato, nell’immaginario degli italiani del dopoguerra e della ricostruzione, l’assenza di una dinastia reale”.
Un libro che prova a utilizzare questa storia particolare per riflettere sull’intero Paese. Per capire cosa ha significato, per tutti, quell’idea secondo la quale ‘ciò che va bene alla FIAT va’ bene all’Italia. Soprattutto oggi quando, sotto la spinta di Marchionne, il gruppo sembra essere, da un lato, sempre più orientato verso una dimensione internazionale, dall’altro sempre più interessato ad avere le mani libere, a rifiutare un reale confronto sindacale, perlomeno con la FIOM. Non a caso, perciò, due dirigenti della CGIL (G. Rota e S. Materia) sono stati chiamati a discutere con l’autore.
Che nei giorni successivi al dibattito sia arrivata la sentenza di condanna della FIAT per le discriminazioni messe in atto a Pomigliano contro i lavoratori iscritti alla FIOM, conferma buona parte delle riflessioni e dei ragionamenti sviluppati sulla politica di Marchionne. La FIAT nasce a Torino nel 1899. Giovanni Agnelli (il senatore) ne diventerà l’amministratore delegato nel 1902 e, seguendo l’esempio americano di Henry Ford e del taylorismo, riorganizzerà gli impianti, e ne costruirà di nuovi (Lingotto e Mirafiori), secondo l’idea che occorre “ridurre il più possibile i modelli, aumentandone la produzione per diminuire il più possibile il costo”.
Lo stabilimento di Mirafiori verrà ultimato nel 1938, “soddisfaceva insieme le esigenze di massima produttività e di vivibilità degli ambienti […] c’era una mensa da 10 mila posti, un’area per lo sport e la ricreazione. Era la perfetta fabbrica fascista, come la definì Mussolini”. L’inaugurazione (nel 1939) fu però un flop per il duce: “la gran parte dei dipendenti FIAT restavano socialisti e comunisti”.
Non stupisce, quindi, che il 5 marzo del 1943 partiranno proprio dalla FIAT gli scioperi che poi dilagheranno nell’intero Paese. “Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la morte di Giovanni Agnelli, tutti i poteri della FIAT si concentrano nelle mani di una sola persona, Vittorio Valletta […] aziendalista convinto e fautore di una gestione militaresca e gerarchica della fabbrica”. Inizia un ventennio caratterizzato dal tentativo di espellere la FIOM dalla fabbrica. Un tentativo particolarmente apprezzato dagli “americani ossessionati dalla presenza dei ‘rossi’ nelle industrie ma anche nella vita politica italiana”.
Tutto ciò si tradurrà in reparti confino e schedature per gli operai ‘scomodi’ (FIOM e/o comunisti) e nel cosiddetto paternalismo vallettiano, ovvero la creazione di una sorta di welfare privato (alloggi, case di riposo, premi fedeltà) per indurre le tute blu (con l’appoggio di alcune organizzazioni sindacali come la CISL) a legarsi all’azienda.
Nel 1955, ridimensionata la FIOM, avviene il lancio della 600: “era l’auto che poteva permettersi anche l’operaio che l’aveva costruita”.Veniva così realizzato il sogno ‘fordiano’ del senatore Agnelli. Non stupisce, perciò, che durante il regno di Valletta “mentre le performance aziendali vissero un periodo di vero e proprio boom (fatturato raddoppiato e profitti triplicati) i salari ebbero una crescita ben più modesta (aumenti solo di circa il 40%)”.
Il conflitto in fabbrica, anche grazie alla presenza sempre più massiccia degli operai provenienti dal meridione, riprende agli inizi degli anni sessanta. Dal 1966 il nuovo presidente è l’avvocato, Gianni Agnelli. Nel 1969, grazie alle lotte dell’autunno caldo, viene firmato il nuovo contratto dei metalmeccanici, un contratto che in gran parte realizza le rivendicazioni egualitarie presenti, e diffuse, nel Paese.
Tra il 1975 e il 1980 esplode, anche nelle fabbriche, il problema del terrorismo: 27 i capi e i dirigenti feriti dalle Brigate Rosse, 4 quelli uccisi.
Nel 1980 la FIAT è quasi al collasso con un indebitamento pari al fatturato (6800 miliardi). Gli Agnelli decidono di puntare sulla svalutazione della lira per aumentare le esportazioni e sui licenziamenti per abbassare i costi. Inizia un pesantissimo braccio di ferro con il sindacato, in particolare con la FLM (la federazione che univa i metalmeccanici di tutte le sigle sindacali). Finirà, grazie alla marcia dei 40.000 (capi, impiegati e quadri che contestano lo sciopero, con lo slogan “il lavoro si difende lavorando”) che, schieratisi con la proprietà, ne permettono la vittoria.
A partire dagli anni ottanta, la FIAT, sotto la guida di Romiti e Ghidella, esce dalla crisi industriale grazie ad aiuti diretti e indiretti della politica e al taglio del costo del lavoro. Sciotto ricostruisce con puntualità tutto questo, qui ricordiamo solo ciò che avvenne con la vendita dell’Alfa Romeo. La FIAT, grazie all’intervento del governo Craxi, ottenne, a fronte di un’offerta ben più vantaggiosa della Ford, di acquistare l’azienda italiana con un costo finale pari a meno della metà dell’offerta iniziale. Nell’Italia della Milano da bere, tutto questo era normale.
Dopo l’uscita di scena di Romiti, e la morte dell’Avvocato, è Marchionne, definito da Bertinotti il ‘borghese gentiluomo’ il primo a permettere nuovamente un’identificazione tra l’azienda e il suo amministratore delegato. Purtroppo, i positivi giudizi iniziali lasceranno ben presto il posto a una drammatica ripresa della conflittualità. Come ai tempi di Valletta, vengono rimessi in discussione i diritti dei lavoratori, sino alla contestazione della stessa esistenza del contratto collettivo nazionale di lavoro, e inizia una sorta di ‘caccia’ al sindacalista scomodo, ovvero all’iscritto FIOM, come dimostra la sentenza di primo grado sulle discriminazioni.
Un quadro complessivo più che preoccupante, tanto da far scrivere a Sciotto in conclusione, “il timore più forte rispetto al destino della FIAT è che l’azienda che ha rappresentato più di tutte lo sviluppo industriale e la crescita economica dell’Italia possa decidere di emigrare all’estero [se ciò avvenisse] si aprirebbero scenari del tutto inediti, che per il momento non appaiono, purtroppo, per nulla positivi”.
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