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Roberto Di Bella, allontanare i figli dai boss della 'ndrangheta

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2005: un ragazzo poco più che adolescente chiede di incontrare il giovane giudice del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria che lo ha da poco condannato, mostrando sul suo volto tutta la sofferenza di una giovane vita stravolta da accadimenti più grandi di lui. Finirà in una struttura psichiatrica.

Alcuni anni dopo allo stesso giudice capita di dover giudicare per motivi analoghi anche il fratello minore.

Ancora qualche tempo e una donna – figlia, sorella e moglie di uomini uccisi, latitanti o in carcere perché implicati in delitti di ‘ndrangheta – si presenta al giudice Roberto Di Bella, nel frattempo divenuto Presidente dello stesso Tribunale, chiedendo di essere aiutata per dare un destino diverso ai suoi figli ancora minorenni verso i quali non riesce ad esercitare la sua autorità materna, affascinati come sono dai presunti valori della cultura mafiosa.

Questi, ed altri episodi analoghi, fanno scattare nella mente del magistrato una constatazione: la struttura criminale coincide con quella familiare

La ‘ndrangheta cioè, a differenza della mafia, ha una forte connotazione familistica e fonda la sua forza e la sua impenetrabilità su una stringente continuità generazionale che comporta un coinvolgimento dei figli negli affari mafiosi, fin dalla minore età.

Per questo i figli sono risorse umane preziosissime perché assicurano, attraverso un lento processo di indottrinamento e di condizionamento culturale che comincia praticamente fin dalla nascita, la sua costante rigenerazione.

A questo punto il giudice Di Bella si rende conto che non si tratta più di una semplice questione di ordine pubblico e che l’azione repressiva, per quanto ineludibile, non è sufficiente. Si tratta di una vera e propria emergenza culturale ed educativa che va aggredita alla radice perché in molti casi l’unica soluzione è ‘allontanare i boss dai loro figli’, anche se apparentemente sembra il contrario.

Il modo diverso di affrontare la questione quindi non può essere solo penale ma si deve combinare con quello civile, agendo sul principio della ‘responsabilità genitoriale’ (art. 316 del Codice civile) che sostituisce quello, ormai desueto, di ‘potestà genitoriale’ e che afferma il diritto del minore a ricevere una corretta educazione orientata a “sviluppare un senso di responsabilità morale e sociale conforme ai principi consacrati nella Costituzione”.

Sulla base di questa motivazione, Di Bella è riuscito ad allontanare dalla famiglia di origine una sessantina di ragazzi, molto spesso d’accordo con le madri che per prime hanno chiesto l’aiuto dello Stato per poter dare ai propri figli una opportunità diversa da quella stabilita dal destino di nascere in una famiglia di ‘ndrangheta.

In altri termini, ha equiparato ai maltrattamenti fisici e considerato come degrado educativo la trasmissione dei valori mafiosi, surrettizia o forzata che sia, nei confronti di minori incapaci e impossibilitati a difendersi: attraverso essa infatti “si compromette in modo sostanziale l’integrità psico-fisica del minore e la formazione della sua personalità” e, fin dalla più tenera età, si condizionano le menti e si addestra all’uso della violenza come strumento di affermazione del potere mafioso.

Utilizzando questo spiraglio legislativo, il giudice Di Bella ha aperto un capitolo del tutto inedito nella storia del contrasto alla ‘ndrangheta.

In questo lavoro di reindirizzamento di destini apparentemente ineluttabili Di Bella ha trovato una preziosa alleanza in alcune esperienze di volontariato qualificato, come ‘Libera’ innanzitutto, ma anche la comunità papa Giovanni XXIII e Addiopizzo, che gli hanno fatto da sponda per costruire delle reti di supporto che gli hanno consentito di realizzare concretamente il suo progetto, ad esempio mettendo a disposizione alcune famiglie che, in località protette e lontane dalla Calabria, fossero in grado di farsi carico di questi ragazzi ospitandoli a casa loro.

Solo in questo modo è riuscito finora a dare una nuova possibilità di esistenza almeno ad una sessantina di ragazzi e ragazze, anche se bisogna tener conto che questo percorso può durare solo fino al compimento del diciottesimo anno: dopo i ragazzi debbono essere lasciati liberi di decidere quale strada intraprendere.

La buona notizia è che, almeno finora, solo tre ragazzi hanno avuto successivamente problemi penali ed uno solo uno per mafia.

Una seconda sponda, non del tutto prevedibile, Di Bella l’ha trovata nelle madri che magari all’inizio hanno protestato e hanno cercato di opporre resistenza, poi hanno capito che si stava operando per il bene dei figli, ai quali veniva offerta un’opportunità diversa da quella prevista dal contesto familiare. Talvolta hanno chiesto loro stesse di seguire i figli nell’allontanamento.

Nella costruzione di queste reti di supporto, punti deboli si sono rivelati sia il sistema scolastico, da cui, sostiene Di Bella, non è mai arrivata una segnalazione, sia il servizio sociale pubblico, che non sempre è stato all’altezza della situazione, sia per impreparazione sia per mancanza di mezzi adeguati e, talvolta, anche per amore del quieto vivere.

Naturalmente questo modo di intervenire nelle dinamiche familiari suscita perplessità e quesiti etici: è giusto allontanare un ragazzo dalla famiglia con queste motivazioni?

Ma, d’altra parte, se lo si fa in presenza di genitori drogati o alcolizzati, perché non dovrebbe essere lecito farlo analogamente per padri mafiosi?

Dal novembre dello scorso anno questo progetto è uscito dalla sua dimensione locale per assumere i contorni di un protocollo organico che coinvolge i ministeri di Giustizia, della Famiglia, dell’Istruzione, la Procura nazionale antimafia, il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, l’associazione ‘Libera’ e la Conferenza episcopale italiana (CEI) che lo finanzia tramite i fondi dell’8 per mille.

Ma, nella logica più generale dell’intervento preventivo e non solo repressivo, sarebbe auspicabile l’approvazione di un quadro legislativo specifico che lo renda meno sperimentale e più strutturale.

Da luglio, per Roberto Di Bella si apre una nuova sfida, il ruolo di Presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania, dove arriva per trasferimento.

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Per chi volesse approfondire, si rimanda alla visione del film prodotto dalla RAI: https://www.raiplay.it/programmi/liberidiscegliere

e alla lettura di tre pubblicazioni:

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