Ossa dei morti e pupi ri zuccuru, pipareddi e nzuddi, Rame di Napoli e dolcetti di pasta reale. Sono alcuni dei dolci tipici della Festa dei morti in Sicilia che, soprattutto fino ad alcuni anni fa, genitori o nonni ci facevano trovare dentro un piccolo canestro di vimini, la notte tra l’uno e il due novembre, accanto a biscotti, frutta secca e giocattoli.
Venivano a deporli, mentre dormivamo, ai piedi dei nostri letti e l’indomani ci dicevano che erano i doni dei defunti, dei morti della famiglia o di amici cari, persone amate e perse che tornavano sulla terra una volta l’anno per regalarci vestiti, giocattoli e dolciumi.
Quest’anno vogliamo ricordare questa usanza tradizionale che si va perdendo e ricostruire l’origine di alcuni di questi dolci, rinviandovi anche alle ricette presenti in uno dei tanti siti che le riportano.
Cominciamo dalla frutta Martorana o pasta reale o marzapane, dolcetti di pasta di mandorla “travestiti” generalmente da frutti o ortaggi. Prendono il nome dalle suore benedettine del convento della Martorana di Palermo che li prepararono e poi li fecero gustare anche a corte, dove furono apprezzati dallo stesso re. Da allora, quindi, il nome si trasformò in “pasta riali”, pasta reale.
Ci sono i “Crozzi ‘i mottu”, le ossa dei morti, “tibie” di zucchero su un biscotto croccante che profuma di cannella e chiodo di garofano, che in provincia di Siracusa sono dette ” ‘ ncanniddati “, cioè fatte di cannella. Ne parla Ercole Patti nel suo romanzo “Un bellissimo novembre”, ambientato a Catania, e scrive “faceva un certo effetto mangiare quei dolci proprio in quella ricorrenza quasi che si volesse festeggiare la celebrazione dei defunti divorandone simbolicamente i resti”.
Quanto ai tetù o tatù, biscotti bianchi e neri, di mandorle e cioccolato, il loro nome pare che provenga dall’abbreviazione del palermitano “tetù e teio”, vale a dire “uno tu e uno io”/ “tieni, uno a te e uno a me”, espressione utilizzata dai bambini nel dividersi i biscotti.
Tipici del Catanese sono i ‘nzuddi, biscotti al miele, rotondi e piatti, con un’unica mandorla al centro. Anticamente erano preparati dalla monache Vincenziane dalle quali prendono il nome (‘Nzuddu è il diminutivo dialettale di Vincenzo).
I pipareddi, spesso chiamati italianizzandone il nome Piparelle, sono anch’essi biscotti impastati con mandorle intere ma all’impasto dei quali si aggiunge del pepe nero, da cui il nome. I nostri nonni ricordavano ancora un vecchio venditore che incitava i bambini al grido di “Piangi, piangi, bambino, che la mamma ti compra i piparelli”.
E che dire dei magnifici “pupi ri zuccaru”, vere e proprie bambole di zucchero che troviamo -ahimè- solo nel Palermitano. Ritraggono spesso i paladini, i nostri pupi , Orlando, Rinaldo e Angelica la bella o uomini a cavallo e dame. Vengono chiamati anche Pupi a cena o pupaccena grazie ad una leggenda che racconta di un nobile arabo diventato povero che li offrì agli ospiti al posto di altro cibo del quale non disponeva.
Nel Catanese ci sono anche le Rame di Napoli che trarrebbero il loro nome dal conio di una nuova moneta in lega di rame che aveva sostituito quelle più preziose in oro e argento, in occasione dell’annessione della Sicilia al Regno di Napoli da parte dei Borboni: la popolazione decise allora di ricordare l’evento inventando un dolce. Originariamente la ricetta, proprio come la nuova valuta che nasceva da leghe più povere, prevedeva l’uso di scarti e ritagli di altri dolci avanzati, ma con il passare del tempo questa usanza pare sia stata messa da parte.
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interessante articolo di un autore veramente competente che ci imbandisce nel giorno canonico la tavola della memoria con tutti i dolci della tradizione siciliana, e ne traccia le origini storiche di ciascuno.
Una sola nota: l’ambulante che io ricordo – davanti l’ingresso della villa comunale di Acireale – invitava ad acquistare con la frase citata nell’articolo e rimasta proverbiale “piangi bambino che la mamma ti compra…(non i pipareddi) i ‘nciminaddi”, che erano biscotti di varia forma cosparsi di diavulicchi colorati.