Denominatore comune, la lotta per la legalità e per la trasparenza. Questo il fil rouge che ha legato i tanti interventi dei relatori al convegno su “Il caso Catania e il ruolo dell’informazione” che si è tenuto a Catania, a palazzo Biscari, il 28 ottobre scorso.
Inizia Renato Accorinti, leader della Rete No Ponte. Dice che non ci sono steccati, che tutti devono occuparsi di ciò che accade anche a distanza. Parla dello Stretto di Messina, posto mitologico della bellezza sul quale incombe il pericolo della devastazione, con la creazione di un Ponte che non servirà a nessuno fuorchè alla mafia. Di un ponte che è un fallimento in partenza. Parla di sprechi in un’Italia ridotta in miseria, dei soldi già spesi per un progetto solo di massima. E delle autostrade del mare come alternativa.
Fabio Repici, penalista, difensore di numerosi familiari di vittime innocenti di mafia traccia un excursus del Caso Catania, da quel
7 dicembre 2000 in cui il magistrato Giambattista Scidà raccontò alla commissione antimafia le devianze di magistratura e stampa nella città dell’Etna. E poi va ancora più indietro, all’82 quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa concede a Repubblica un’intervista-denuncia, spartiacque tra informazione e monopolio. Monopolio che ha un nome e un cognome -denuncia Repici- si chiama Mario Ciancio. Una vera e propria cappa quella della stampa, dalla quale viene generata un’altra cappa, quella del partito unico. “Anzi -si corregge- dei partiti unici, giudiziario e politico, che guerra tra loro non se ne possono fare”. E poco importa se, adesso, gli antichi amici, nei palazzi della politica come in quello della giustizia, siano in guerra tra loro. Parla del caso Catania che è anche caso Italia, l’avvocato Repici, della vicenda della casa acquistata dal magistrato Giuseppe Gennaro, adesso aspirante alla poltrona di Procuratore della Repubblica, da un’azienda in odor di mafia, il cui titolare venne poi ucciso nel timore
che si pentisse. Si chiamava Carmelo Rizzo e pubblicizzava gli appartamenti in vendita con una brochure nella quale si vantava di costruire case senza i permessi di legge. “La foto su quel depliant- dice Repici- ritraeva proprio la villa del dottor Gennaro”.
Loris Mazzetti, giornalista e capostruttura di Rai 3, che ha preso 20 giorni di sospensione per essere birichino (leggi indipendente), descrive una Rai, consegnata a Berlusconi, che si sta ritirando da tutte le competizioni, senza alcun piano editoriale per il futuro sul digitate terrestre che, invece, porterà milioni nelle casse private del premier, delle perdite rai inversamente proporzionali ai guadagni mediaset. Mazzetti denuncia, insomma, una politica che nuoce all’azienda e giova alle reti berlusconiane.
Il presidente dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro è sicuro: “Il monopolio dell’informazione può essere sconfitto”. Come? Non rinunciando a partecipare, a informarsi e a informare, combattendo la classe politica che non ha fatto gli interessi degli italiani. ” Oggi – dice Di Pietro- molti italiani sono ammalati di berlusconite. Il Parlamento è fermo, bloccato su conflitti di interessi, su leggi ad personam. Occorre resistere. Come allora anche oggi è un momento di resistenza. E della resistenza devono essere protagonisti i cittadini”.
Parla di suo padre, ucciso dalla mafia e censurato da La Sicilia della quale era corrispondente, Sonia Alfano, ora parlamentare europea. E poi della politica regionale, prodotto di trasversalismi e obliquità, della pd Finocchiaro, prima concorrente ed ora sodale del governatore Lombardo. Auspica infine che la città dell’Etna possa ripartire dal Caso Catania per rinascere.
Conia un neologismo, il termine “tabuizzazione” (da tabù), l’ex presidente del tribunale dei minorenni Giambattista Scidà, lui che, in genere, usa, negli scritti come nel linguaggio parlato, termini paludati, aulici e desueti. E conclude parlando del caso Catania, il caso partito dalla denuncia da lui presentata davanti alla commissione antimafia e del monopolio dell’informazione, di Ciancio. E non solo di Ciancio e del suo giornale, non solo dei colpevoli silenzi della stampa ma di quelli delle trasmissioni televisive, dei libri, dei convegni. Come quello su Gli Stati generali dell’antimafia voluto da Don Ciotti e nel quale Scidà rischia persino di non avere la parola e dagli atti del quale scompariranno il suo nome e il tema del suo intervento. Scidà cita letteralmente un articolo di Toni Zermo sulla prima pagina della Sicilia. E’ la prima volta che sul giornale catanese compare il nome di Santapaola, definito, però, dall’estensore dell’articolo, “boss temuto”, “capo rispettato”, che ha esercitato “una funzione di equilibrio” e “ha messo al bando i sequestri di persona per estorsione”. Certo qualche voce di dissenso si è levata tra i giornalisti, tra i magistrati, all’interno della stessa mafia con i pentiti. Ma contro questi trasgressori si è esercitata la repressione del Csm, dei clan e i ricatti delle querele. Ma cos’è il caso Catania, si chiede o meglio ci chiede Scidà e risponde: “E’ un insieme di comportamenti di magistrati nella vita privata, nella transazioni con altri soggetti, negli acquisti. Ma non solo questo. Il Caso Catania investe anche palazzo degli elefanti, col suo dissesto, la cattiva amministrazione, il disordine amministrativo”.
“Il caso Catania non è solo un caso giudiziario -conclude Scidà- e’ il caso della città. E non è solo il caso di Catania (si dovrebbe dire Catania-San Giovanni La Punta) ma il caso Italia, nel senso che nelle sue pieghe si possono leggere i segni del fallimento della nostra democrazia. Ed è un caso di palpitante attualità.”
Tutti gli interventi integrali nel sito di radioradicale.it
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Leggi su Argo Processo a Travaglio, Giustolisi e Flores d’Arcais. Catania matrigna
Leggi il pdf dell’articolo di Travaglio e Giustolisi Arrivano i catanesi, pubblicato da Micromega
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