Non si risparmiano i giovani redattori di InChiostro, il giornale studentesco, cartaceo e on line, lanciato da un gruppo di studenti universitari che vuole guardare in modo critico alla realtà non solo universitaria ma anche cittadina.
Oggi, nel pomeriggio alle 18.30, nell’aula 30 del monastero dei Benedettini, verrà presentato un nuovo numero, di fatto il quarto, considerando anche il numero speciale del 7 maggio, dedicato alle elezioni universitarie del 14 e 15 maggio e ai referendum di giugno.
Ci soffermiamo oggi sul numero 1, dedicato al disagio giovanile e in particolare al disagio giovanile nella nostra città. Una “città dell’apartheid”, scrivono i redattori nell’editoriale, in cui i giovani, a seconda della parte di città in cui sono nati e delle condizioni materiali e culturali in cui vivono, hanno differenti prospettive di vita.
“Date le diseguaglianze sociali che dividono il territorio” – leggiamo ancora nell’editoriale – abbiamo di fatto due Catanie, in una delle quali vivono i giovani nati in famiglie agiate e scolarizzate, mentre gli altri si trovano intrappolati in una condizione di “povertà culturale, economica, sociale”, non momentanea ma che “si reitera ad ogni generazione”.
Una rappresentazione impietosa, e anche coraggiosa, che si concretizza nei numeri. L’abbandono precoce degli studi, con il 25% dei nostri giovani concittadini tra i 18 e i 25 anni che ha al massimo un diploma di scuola media ed è, di fatto, escluso dall’istruzione superiore. Il tempo pieno che, a Catania, riguarda solo il 9% delle classi, il dato più basso del Paese – con una perdita di un anno di scuola, di sapere e di socializzazione che i bambini catanesi subiscono nell’arco dei cinque anni della scuola elementare, rispetto ai loro coetanei del Centro Nord. E ancora, i numeri della devianza giovanile, delle ragazze che diventano madri a 15-16 anni, dei chilogrammi di droga sequestrati nel nostro porto e sul nostro territorio.
Con la dolorosa conclusione che un grande numero dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze sono “esclusi da fondamentali diritti di cittadinanza e condannati ad un futuro segnato da incertezza e precarietà”.
Può la scuola svolgere un ruolo realmente incisivo, di contrasto alla dominante povertà educativa? Per cercare di rispondere a questa domanda i nostri giovani redattori hanno intervistato due insegnanti dell’Istituto Comprensivo Brancati di Librino, una maestra della scuola elementare e una professoressa della media.
Lucidamente le docenti segnalano come i giovanissimi alunni siano molto radicati nel loro quartiere, che essi vivono come “vanto ed onta: vanto perchè si sentono una comunità, condividono un sistema valoriale distorto (patriarcato, omofobia, razzismo), esaltano e spettacolarizzano il crimine che viene commesso. Onta perchè si sentono ghettizzati, venendo relegati soltanto a quell’ambiente.”
Ecco perché – proseguono – trovano normale spacciare una dose di sostanza stupefacente “tra un calcio al pallone e un giro in bici.” Ecco perché hanno già un sistema di valori ben precisi, in cui vince il più forte, è dovuto rispetto totale del Capo e non-rispetto alle donne.
Una cultura dominante che la scuola può solo provare a contrastare offrendo se stessa come luogo di aggregazione e proponendo molte attività extra curriculari per tenere i ragazzi fuori dalla strada. E facendo anche di più: educarli al rispetto delle regole, incoraggiarne l’autostima, insegnargli a vivere la “diversità come valore aggiunto”.
Una strada in salita, comunque, da percorrere in un “lavoro sinergico” con psicologi e assistenti sociali. Purtroppo, infatti, sono ancora pochi – e loro sono sono le prime a riconoscerlo – i ragazzi che riescono a continuare a studiare, a laurearsi o a cercarsi un lavoro onesto di cui vivere.
C’e poi chi per avere un futuro decide di partire, come fa ormai una percentuale molto alta di giovani siciliani. Alla partenza e alla “restanza” è dedicato un articolo di questo numero di InChiostro, con dati, storie, ragionamenti.
Resta il fatto che i giovani oggi sono più sbandati che mai, si sentono una “generazione precaria”, condannata all’incertezza o allo stordimento permanente in cui solo “il cellulare e i social garantiscono una pervasiva e perpetua gratificazione”.
Ma in realtà social e ‘connessione’ costante e pervasiva non risolvono il problema, anzi sono essi stessi il problema. Ed ecco l’articolo sulla “JOMO, un rimedio alla tecnoansia”.
La JOMO infatti, “joy of missing out”, la gioia che si cela nella consapevolezza di non poter freneticamente partecipare a tutto , può restituirci ad uno stile di vita lento, meno iperconnesso, ma più appagante.
Si contrappone, infatti, alla FOMO: “Fear of missing out”, la paura di perdersi qualcosa, di restare escluso dagli eventi. Un timore che affonda le sue radici nell’endemica insoddisfazione della propria vita, e soprattutto del momento presente, quel momento presente di cui dovremmo riappropriarci e di cui dovremmo godere, “nella consapevole scelta di distacco dai social” per valorizzare le connessioni umane, quelle vere, “ben distanti da quelle che si ha l’impressione di raggiungere tramite i social”.
Diciamo grazie ai redattori di InChiostro per la loro voglia di capire, le riflessioni che ci propongono, le letture che fanno e su cui ci aggiornano. E restiamo in attesa dei prossimi numeri.