Carmelo Mendola è il nome di un artista che, forse, ai catanesi non dice molto. Tutti però conoscono la fontana dei Malavoglia, collocata in piazza Verga. Si tratta infatti di una delle realizzazioni più rappresentative di questo singolare scultore il cui percorso artistico si è sviluppato al di fuori degli ambiti tradizionali ma che può ancora essere conosciuto visitando la piccola ma ricca galleria custodita fedelmente dalle nipoti nella sua casa-laboratorio-museo, in una strada un po’ appartata, come il suo titolare.
C’è, infatti, qualcosa di stupefacente nel modo in cui, a quarant’anni, Mendola si rivela come scultore provetto senza nessun pregresso percorso formativo, né di tipo accademico né presso un maestro di bottega.
C’è una maturità umana che ha certamente radice nelle esperienze di una vita segnata, tra l’altro, dalla ricerca inquieta che lo aveva caratterizzato sin da ragazzo e dall’impatto duro con la guerra di trincea in età giovanile.
Una vita non semplice, nonostante la solidità economica della sua famiglia d’origine, attiva nel commercio di legname che anche lui praticherà con una propria azienda. Una vita non ancora adeguatamente studiata, così come tutta la sua arte, su cui potrebbe contribuire a fare luce l’autobiografia ancora inedita.
Quello che stupisce, nella tardiva manifestazione di abilità scultorea di questo artista non è la sensibilità artistica, che era emersa già nella pittura e nella musica, amata e praticata come pianista. E’ la perizia tecnica, che certamente si affinerà con il tempo, nel ‘corpo a corpo’ con la varietà di materiali con cui volle misurarsi, ma che appare sin dall’inizio inspiegabilmente matura.
Se la critica d’arte tornerà ad occuparsi di Carmelo Mendola, come ci auguriamo che avvenga, potremo comprendere meglio il suo percorso interiore ed approfondirne soprattutto la fase finale, quando, nelle sue opere non solo scultoree ma anche pittoriche, la rappresentazione della realtà diventa più drammatica, viene dato spazio alla natura e al mondo animale piuttosto che alle figure umane, con i corpi che si asciugano acquistando connotati inquietanti, talora mostruosi. E con una contaminazione tra animale e uomo, che sembra attribuire, a quest’ultimo caratteri animaleschi.
Emerge una stanchezza, una crescente sfiducia nell’essere umano, probabilmente legata anche alle difficili e logoranti vicende legate al concorso per il monumento a Giovanni Verga.
In quell’occasione Mendola dovette confrontarsi con un mondo accademico e culturale a cui era estraneo e che forse non ne riconobbe mai appieno il talento, se non quando l’opera arrivò a compimento dopo un iter tortuoso e pieno di ostacoli, la cui ricostruzione è possibile trovare nelle pagine del sito internet a lui dedicato.
La fontana dei Malavoglia, oltre che il più importante lascito dell’artista alla città in cui aveva scelto di tornare e da cui non volle più – se non occasionalmente – allontanarsi, è un’opera su cui Carmelo Mendola investì moltissime energie e la cui realizzazione richiese la ricerca di continue soluzioni tecniche e anche notevole fatica fisica.
Per la fusione di questo grande bronzo scelse la fonderia Chiurazzi di Napoli, dovette viaggiare, risolvere il problema del trasporto e del montaggio, tutti passaggi che volle seguire personalmente passo passo pur non essendo più giovanissimo. Pagò anche il peso dello stress emotivo a cui era stato sottoposto dai rifiuti, dai ritardi, dalla scarsa trasparenza e non fu un caso che la sua vita venisse stroncata da un ictus subito dopo l’inaugurazione.
Nel lungo periodo che precedette la realizzazione e durante i cinque anni in cui lavorò ad essa, Mendola ebbe modo di ragionare su vari aspetti tecnici e di cercare soluzioni innovative, con lo stesso spirito e desiderio di sperimentazione che lo aveva sempre caratterizzato. Studiò, tra l’altro, sin nei minimi particolari, il ruolo dell’acqua rispetto alle masse della barca e delle figure umane che con essa affondano. Ragionò sulla collocazione degli ugelli e sulla direzione dei getti, perché capiva che dal movimento dell’acqua dipendeva l’efficacia della rappresentazione di quel drammatico momento in cui l’imbarcazione, con gli uomini che la governano, viene travolta e inghiottita dalla furia degli elementi.
La presenza dell’acqua è, d’altra parte, ricorrente in tutta la produzione dello scultore. La ritroviamo come elemento generatore ne la Genitrice, figura di donna dal corpo affusolato che quasi esce dal mare, la riconosciamo come lo scenario che garantisce leggerezza e libertà di movimento al bronzo ‘Subacquea’, la intuiamo nel Pescatore di perle, la grande scultura in marmo in cui l’uomo lotta per liberarsi dalla gigantesca piovra che lo avvolge. Scultura poi ribattezzata Colapesce dai critici che vi riconobbero una efficace rappresentazione dell’uomo-mito.
La grazia dei movimenti affascinò sempre l’artista che, infatti, riprodusse spesso figure di danzatrici, studiandone e rappresentandone le movenze in diverse opere. Lo affascinava anche il movimento in sé. Lo vediamo nelle sculture a tema sportivo come la Sciatrice o il Lottatore, oppure nel moto avvolgente che lega i corpi di Paolo e Francesca trascinati dal vento della tempesta infernale.
Un movimento che si associa talora a forme arrotondate come nel caso della Bagnante, che emerge sinuosamente dal marmo, perfettamente levigata, eppure non del tutto sbozzata, o diventa inno alla velocità nell’Amazzone in corsa, in cui il materiale più classico, il marmo bianco, viene piegato ad una rappresentazione quasi futuristica dell’accelerazione, presente anche in alcuni bronzi, come il tennista.
Lo studio del movimento lo vediamo anche nei disegni, alcuni dei quali sono stati pubblicati nel volume delle Edizioni Galleria Cortina di Milano, curato da Luciano Budigna, lo ritroviamo nei bronzi degli Acrobati e di Salvataggio, in cui più figure si agganciano con gli arti protesi come a divenire l’una il prolungamento dell’altra con una leggerezza che diventa sfida ardita alla forza di gravità.
In questa ricerca del movimento, che richiede anche lo studio di tecniche appropriate, si colloca la Nike di Naxos, di cui abbiamo anche bozzetti e disegni preparatori. Presentata al concorso come bronzo, fu realizzata in macrofiligrana, e l’effetto di struttura traforata, usata in genere in oreficeria e qui utilizzata in grande scala, dà a questa figura alata, ispirata alla Nike di Samotracia, una leggerezza estrema. Collocata a Giardini Naxos sull’estrema punta di capo Schisò nel 1965, in occasione del gemellaggio con Calcide Eubea, dove se ne trova una copia, è una delle opere che ha dato visibilità internazionale all’artista.
Sempre a cavallo tra classicismo e sperimentalismo, Mendola si misura con vari materiali, compresa la durissima pietra lavica in cui scolpisce una delle sue opere più grandi e più pesanti, quegli ‘Uomini in lotta’ in cui rappresenta la corsa degli esseri umani in lotta tra loro, abbrutiti fino a strisciare. Sperimenta anche il marmo nero del Belgio, in cui scolpisce un San Giorgio quanto mai suggestivo, tutte opere che esprimono una visione mai banale della vita sia nei suoi aspetti contraddittori sia nei suoi aspetti positivi, come accade nell’Albero della vita, una pittura in cui viene raffigurata l’ascensione dell’uomo verso valori superiori, non individualmente ma in coppia.
Alla Nike e alla Fontana dei Malavoglia si aggiungono, come opere sistemate all’aperto, i busti di Angelo Musco e di Giuseppe De Felice, collocati nel viale degli uomini illustri della villa Bellini, e di Sebastiano Guzzone nel giardino pubblico di Militello.
Ma la maggior parte è conservata nella sua casa-museo, una parte di quel vasto edificio da lui stesso progettato e realizzato perché divenisse l’abitazione della famiglia, il suo laboratorio e “tempio dove custodire la propria opera“.
Oggi ne sono custodi le nipoti che, accanto alle opere del nonno, curano e gestiscono l’esposizione di quelle della madre, Ileana Mendola, anch’essa artista di non poco conto, a cui contiamo di dedicare presto un approfondimento. Ma quello che oggi si chiama Atelier Mendola e che fa capo all’Associazione Culturale Carmelo e Ileana Mendola, non è solo un luogo della memoria.
Nell’Atelier Mendola si tengono anche concerti e altri incontri culturali, rinnovando la tradizione iniziata da Carmelo e proseguita da Ileana nel decennio 1980-1990 con il Ciac (Centro Informazione di Arte Contemporanea), divenuto in quegli anni un importante punto di riferimento culturale anche per il prestigio dei letterati e degli uomini di teatro che lo frequentarono, da Sciascia a Dario Fo, da Bufalino a Pugelli.
Oggi ospita soprattutto eventi musicali a cura del Collegium Musicum, con Angelo Litrico come direttore artistico.
Per chi fosse interessato a conoscere meglio l’opera di Mendola, è possibile prenotare una visita guidata, della durata di 90 minuti, telefonando al numero 3200525746, oppure al 3341332138. E’ previsto un contributo di 10 euro a persona. A guidare la visita sarà una delle nipoti.
Di Carmelo Mendola Argo ha parlato nel 2016, in occasione di un convegno che riaccese i riflettori su questo artista dimenticato, e che Argo considerò Un risarcimento morale per Carmelo Mendola
Di seguito, alcune delle immagini di cui abbiamo fatto cenno (Dipinti e sculture dell’ultimo Mendola, La Genitrice, Uomini in lotta, L’albero della vita, Paolo e Francesca, San Giorgio). Immagini di tutte le opere si possono vedere sul sito http://www.carmelomendola.com/index.htm
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Grazie dell'interessante e illuminante articolo. spero che in molti andremo a visitare la casa museo di Mendola.
per me è stata una scoperta