Un volume monografico della rivista ArcheoLogica Data (n.5.1 -2025), curato dall’archeologa Francesca Valbruzzi, raccoglie i contributi sugli esiti scientifici delle principali attività di ricerca archeologica condotte nell’ultimo decennio nel territorio ennese.
Ve lo segnaliamo (lo potete trovare a questo link) perché testimonia l’importanza delle ricerche archeologiche nella conoscenza del nostro territtorio e delle ricche testimonianze che esso racchiude, anche in quelle aree che consideriamo oggi marginali. E perché riteniamo che abbia anche una importante valenza metodologica.
La monografia nasce, infatti, dalla collaborazione con il progetto di open data MAPPA dell’Università di Pisa, un progetto di ‘disseminazione culturale”, in base al quale i dati grezzi (giornali di scavo, shape, schede UR, US, RA, rilievi digitali) acquisiti dalle ricerche archeologiche sono caricati in formato open data sul portale MOD dell’Università di Pisa e messi a disposizione di altri studiosi che, in occasione di future indagini archeologiche condotte nello stesso territorio, potranno utilizzarli per proporre altre interpretrazioni.
I risultati scientifici devono, contestualmente, essere messi a disposizione anche dei non specialisti, con un linguaggio semplice e accessibile, in modo da permettere alle comunità locali di comprendere il valore culturale e sociale del proprio patrimonio archeologico, che è – a tutti gli effetti – un bene comune da salvaguardare.
Di seguito riportiamo parte dell’introduzione al volume, a firma della curatrice.
Questo nesso inscindibile tra la “promozione della cultura” e la “tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione” è magistralmente spiegato nel dettato costituzionale dell’articolo 9, che con la legge costituzionale n. 1 dell’11 febbraio 2022 è stato modificato aggiungendo due capoversi finali molto significativi: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni”.
Ma l’obbligo costituzionale di divulgazione degli esiti delle ricerche archeologiche condotte con fondi pubblici non sempre viene assolto dalle istituzioni che ne hanno la responsabilità, per colpa, troppo spesso, della mancata attribuzione della paternità dei dati agli archeologi che li producono sul campo. A questi professionisti viene, infatti, sistematicamente disconosciuta l’elevata specializzazione ed il ruolo istituzionale.
Il caso più eclatante è, senza dubbio, la vicenda dei funzionari direttivi vincitori del concorso del 2000 per ‘dirigente tecnico archeologo’ tramite selezione a titoli postlaurea. Questi professionisti, in servizio ormai da vent’anni, si sono visti retrocessi dalla Regione Siciliana rispetto ai funzionari in possesso di un semplice diploma di scuola secondaria. Essi, però, pur rimanendo privi delle funzioni direttive adeguate al profilo elevato previsto dal bando di concorso e senza alcuna possibilità di carriera e di avanzamento anche solo economico, hanno, comunque, reso il loro servizio alla causa della tutela e della ricerca con estrema disciplina e dedizione.
Tra le altre cose, è stato impedito a questo personale specializzato di svolgere un’attività di progettazione degli interventi di manutenzione, conservazione, ricerca e valorizzazione dei beni archeologici tutelati dagli Istituti regionali dove prestano servizio. Nel migliore dei casi hanno potuto redigere solo brevi relazioni scientifiche da allegare alla richiesta di finanziamenti ordinari (sempre meno) o europei per attività di ricerca archeologica, ma raramente hanno avuto la possibilità di progettare per intero un intervento di valorizzazione e fruizione del patrimonio archeologico regionale.
Nelle strutture centrali e periferiche del Ministero della Cultura, invece, gli interventi sui beni archeologici vengono progettati e diretti dai funzionari archeologi, i quali, pur avendo titoli analoghi a quelli posseduti dai corrispondenti funzionari direttivi archeologi della Regione Siciliana, godono tutti di incarichi direttivi adeguati al proprio profilo professionale elevato, quali la responsabilità di musei, aree e parchi archeologici, e la direzione delle unità operative per i beni archeologici delle Soprintendenze.
Abbiamo spiegato nel volume “Utopia e impostura” come sia stata creata dalla Regione Siciliana una tale abnorme disparità tra i funzionari archeologi regionali e gli omologhi statali (Valbruzzi & Russo, 2019), in contrasto con quanto disposto sia dalle leggi regionali 80/1977 e 116/1980 istitutive del sistema siciliano di tutela in tema di ‘ruolo tecnico dei beni culturali’, sia dal Codice dei Beni Culturali e del paesaggio che, all’articolo 9bis, prescrive che gli interventi sui beni culturali siano affidati ai ‘professionisti dei beni culturali’ secondo le diverse specializzazioni disciplinari (i beni archeologici agli archeologi, etc.).
L’effetto più evidente delle distorsioni operate nella pianta organica regionale è l’impiego insufficiente dei fondi strutturali europei nella nostra Isola, come denunciato dagli economisti dell’Università Cattolica in un recente articolo dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani (Musso, 2021). In particolare, nel campo dei beni culturali la mancata attribuzione ai funzionari direttivi archeologi degli incarichi di responsabilità sul patrimonio archeologico ha fortemente indebolito l’azione istituzionale degli Enti regionali di tutela nella progettazione e realizzazione degli interventi su questi beni culturali.
Soprattutto è mancata nella progettazione e realizzazione di questi interventi la consapevolezza del valore comunitario del patrimonio archeologico e la capacità di proporre interventi di divulgazione ampia delle conoscenze storiche che stanno alla base della costruzione della memoria culturale delle comunità siciliane. Pertanto, i progetti non solo sono stati assai limitati ma non hanno mirato alla comunicazione ad ampio raggio delle conoscenze archeologiche, anche tramite i nuovi media digitali, limitandosi ad opere di fruizione di vecchio stampo, con percorsi e cartellonistica, che spesso non hanno resistito all’usura del tempo. Per tale ragione le azioni regionali promosse con i fondi strutturali non hanno avuto una ricaduta positiva né sulla crescita culturale, né sullo sviluppo sociale ed economico delle comunità locali interessate.
Ne è, purtroppo, un esempio il progetto di ricerca e valorizzazione del sito archeologico di Cozzo Matrice, realizzato nel 2015 dalla Soprintendenza di Enna (Valbruzzi & Giannitrapani, 2017). In questo caso, infatti, il progetto archeologico che avevo predisposto e che aveva ottenuto il finanziamento con i fondi PO FESR 2007-2014, è stato realizzato solo nella parte dei lavori a base d’asta destinati alla infrastrutturazione del percorso di visita, poiché le consistenti somme a disposizione per la creazione di un GIS dell’area archeologica e della pubblicazione dei dati di scavo non sono state assegnate e spese, a causa di ritardi burocratici da parte della direzione lavori.
Per rimediare al mancato completamento del progetto di Cozzo Matrice ho curato personalmente la progettazione di un altro intervento di valorizzazione del sito, con una richiesta di 1.000.000 € sui residui non impegnati dei fondi POIN. In questo progetto prevedevo la realizzazione di una app per smartphone che guidasse la visita del sito e consentisse l’accesso ai dati archeologici del sito su una piattaforma GIS. Inoltre, il progetto prevedeva la costruzione di un laboratorio di archeologia sperimentale da attrezzare tramite la ristrutturazione di un rudere ubicato entro l’area demaniale. Il laboratorio sarebbe servito ad attivare campi scuola di archeologia per le scuole di ogni ordine e grado, da affidare ad associazioni culturali senza scopo di lucro. L’obiettivo era, quindi, quello di creare un percorso virtuoso di ricerca, conoscenza e fruizione del sito che attivasse la partecipazione della società civile alla gestione del sito archeologico di Cozzo Matrice, anche per finalità di conservazione e manutenzione dell’area.
Purtroppo, questo progetto, già completo di tutti gli elaborati previsti per il definitivo, non venne presentato nel 2017 dalla Soprintendenza di Enna per l’impiego delle somme non spese del POIN. Il risultato di questa mancata spesa dei fondi europei è sotto gli occhi di tutti: la grande area archeologica di Cozzo Matrice (fig. 4), che comprende i resti monumentali di una città indigena ellenizzata sorta nel VII secolo a.C., con i suoi santuari, le ricche tombe a camera e la grande fortificazione, situata su una collina posta tra il lago di Pergusa e l’acropoli dell’antica Henna, in vista del monte Etna e del Mare Jonio, giace in completo abbandono.
La sottovalutazione del valore strategico del patrimonio archeologico per lo sviluppo dell’Isola più grande al centro del Mediterraneo sta determinando le sorti “regressive” dell’intera comunità siciliana.
«Oggi, al tempo della crisi, l’archeologia o è pubblica o non è. In questo senso l’archeologia, se vuole mantenere un senso e un significato utile alla contemporaneità, deve cambiare radicalmente, smettendo i panni di paludata attività accademica e vestendo quelli di una disciplina concreta e di una prassi intellettuale organica che, avendo il coraggio di mettersi in gioco completamente, sia capace di assumere in parte la responsabilità di cambiare la società, provando ad allontanarla dal baratro.
In altre parole, l’archeologia deve essere capace di studiare il passato partendo da un punto di vista profondamente radicato nel presente, stabilendo una forte connessione tra i propri metodi e obiettivi con il dibattito contemporaneo su quale deve essere il modello di sviluppo della nostra società, necessariamente alternativo rispetto a quello in crisi fino ad oggi imperante, altrimenti la sua pratica diventa del tutto inutile e velleitaria, essa stessa reperto archeologico da conservare ben chiuso nella vetrina di un museo.
Il progetto di un’archeologia pubblica, quindi, deve necessariamente avere una prospettiva ‘politica’, ponendo al centro della propria azione la conoscenza, la cura e la tutela del territorio in quanto elemento fondamentale di recupero della memoria e costruzione di identità, per l’attivazione di processi virtuosi di sviluppo sociale ed economico» (Giannitrapani & Valbruzzi, 2014, p. 49).
Come dimostra la realizzazione collettiva di questo volume e la pubblicazione dei relativi open data, l’unica forma attualmente possibile di riconoscimento del lavoro degli archeologi è il lavoro di équipe. ‘L’unione fa la forza’ vale anche nei cantieri archeologici, dove il lavoro manuale è inscindibile dal lavoro intellettuale e tutti concorrono all’obiettivo interpretativo del contesto archeologico, tutti coloro che producono i dati secondo un rigoroso metodo archeologico: tramite la raccolta e l’analisi dei dati di superficie, l’esame delle stratigrafie, dei rilievi e delle indagini geognostiche o la catalogazione dei reperti. A volte, però, dobbiamo riconoscerlo, il carattere collettivo della ricerca archeologica viene disconosciuto dagli stessi dirigenti o funzionari archeologi che ne hanno la direzione scientifica. Costoro, nel tentativo di difendere il proprio ruolo istituzionale, messo in crisi dalla stessa amministrazione che rappresentano, si contrappongono agli archeologi esterni che collaborano nella conduzione delle indagini archeologiche, giungendo al paradosso, a loro volta, di sottrarre la paternità dei dati scientifici ai professionisti che li hanno prodotti sul campo.
In altre parole, la nostra disciplina, l’Archeologia, non va solo difesa dai detrattori che la accusano di essere inutile socialmente ed economicamente, ma va, soprattutto, ripensata dagli archeologi stessi per ritrovarne la natura di scienza storica, praticata con spirito di condivisione scientifica, al suo interno, e di partecipazione verso le comunità locali, nel contesto in cui si opera. Per citare un libro molto recente: “L’Archeologia o è pubblica o semplicemente non esiste” (Volpe, 2020).


Ottimo testo, che rappresenta sinteticamente la (tragica) situazione in atto. Da una parte, la richiesta e possesso di elevata qualificazione per gli archeologi, dall’altra un evidente sottoutilizzo degli stessi, che non solo mortifica professionisti spesso eccellenti ma, come Valbruzzi scrive e documenta, ostacola/impedisce la spesa e, con essa, la tutela e valorizzazione di aree archeologiche che di questo hanno un gran bisogno. Sottoscrivo tutto quanto detto sull’archeologia pubblica, che stenta ad affermarsi. Ciò, a mio avviso, sia per le mancate risorse a disposizione – stanziare fondi per la pubblicazione e la comunicazione è spesso considerato un optional, se non peggio; sia perché le condizioni di mortificazione degli archeologi possono spingere a comportamenti di esclusione dei professionisti non incardinati nelle istituzioni, in una sterile contrapposizione che danneggia gli uni e gli altri.
Entrambe le categorie comportamentali sono da rivedere e presto: tanto più in una Regione così straordinariamente ricca di patrimonio culturale, in buona parte archeologico, la cui tutela e valorizzazione non può fare altro che del bene alla comunità, alla cultura e, in forme non invasive, al turismo, specie di buon livello.