Un corteo enorme ha attraversato nuovamente le vie di Catania a sostegno della causa palestinese e della Flotilla, promosso da Cgil, Cobas, Usb, con la partecipazione di 8–10 mila persone tra studenti, insegnanti, avvocati, famiglie, associazioni, imprenditori, lavoratori. La manifestazione, partita dal porto e diretta verso piazza Castello Ursino, ha mostrato un sostegno trasversale.

Un gruppo di circa 500 manifestanti ha deviato verso la stazione, occupando i binari e scontrandosi per 15- 20 minuti minuti con la polizia, ricevendo però anche la solidarietà di cittadini e automobilisti. Poi è avvenuto un fatto importante: al termine della manifestazione in piazza Castello Ursino, moltissimi si sono riuniti ai dimostranti della stazione centrale.
Come a dire che nessuno voleva apostrofare quei ragazzi come “radicali” o “estremisti”: avevano soltanto espresso l’esigenza, comune a tanti, di fare qualcosa in più per stare al fianco del popolo palestinese. Certo, il rischio di “fare il gioco della Meloni” — cioè di spostare tutto sul piano dell’ordine pubblico e della sicurezza — c’era. Ma è stato evitato. Il corteo si è ricompattato e, con circa 5mila persone, ha attraversato il centro fino a piazza Duomo, concludendosi nel primo pomeriggio.
Quello che avete sotto gli occhi non vuole essere un articolo di cronaca, ma una lode alle nuove generazioni: un tentativo di ricercare il senso più profondo della loro discesa in campo, pacifica, forte e consapevole.
Negli ultimi dieci giorni, tra cortei spontanei e organizzati, si sono susseguite almeno quattro manifestazioni, in un crescendo di partecipazione. Un fatto ben strano: una città povera e malmessa come poche altre in continuo subbuglio. Anche di notte, quando in 300 si sono riunite non appena saputo dell’abbordaggio della Flottilla.

Il valore aggiunto di tutto questo sono le studentesse e gli studenti delle scuole superiori e dell’università. Scendono in piazza con una straordinaria passione e consapevolezza. Qualcuno dice che la lotta per Gaza sia il loro nuovo Vietnam. E sbaglia.
Perché, a differenza del passato, intorno a loro c’è un deserto. L’ininterrotta crescita economica e civile che caratterizzò i “trenta gloriosi” del dopoguerra è evaporata sotto i nostri occhi. Di quella stagione non è rimasto nulla: né partiti, né sindacati, né conquiste stabili. Richiamare il Vietnam rischia solo di imprigionare questi ragazzi nei nostri stereotipi, in un passato ormai estinto.
Intorno a loro c’è il nulla. Altro che emancipazione del terzo mondo negli anni ’70, altro che riforma della scuola dei ’60, statuto dei lavoratori, lotte salariali o sanità universalistica. Quel mondo che sembrava andare sempre avanti è finito sotto attacco e spappolato. Il loro destino sembra fatto di lavoretti precari e sottopagati, presentati come l’unico futuro possibile. Il “non c’è alternativa” è diventato l’egemonia del presente e di un futuro immobile. Al massimo, gli si ripete che per emergere devono schiacciare gli altri: la chiamano competizione e la spacciano come la cosa più naturale del mondo.
Questa è la condizione in cui si dibattono i nostri ragazzi. Al massimo trovano riparo in qualche decina di professori che lottano ogni giorno per dare un senso a ciò che resta della scuola pubblica. La loro via è più difficile, più ardua che in passato.
Eppure queste ragazze e questi ragazzi indicano una strada. Rompono i luoghi comuni, costruiscono una possibilità per tutti. Per la Palestina, per il popolo palestinese, per fermare il genocidio. E lo fanno oggi, in un mondo terribile e disumanizzato, sconquassato da attacchi senza precedenti ai diritti e alla dignità umana.

Se chiedi a una ragazza perché ha scelto di non restare nel corteo principale — quello che qualche funzionario della Cgil ha definito “ufficiale” — ma di andare a occupare la stazione, ti sgrana gli occhi e risponde: «Voglio fare qualcosa in più. Voglio lasciare un segno. Volevo che il mondo in cui vivo si fermasse e vedesse il genocidio, la morte di migliaia di esseri umani».
Sono ragazze e ragazzi che ritrovano il senso di una lotta e di un’alternativa a partire da loro stessi e dal loro corpo. Percorsi che noi adulti neppure conosciamo. Scambiamo buffamente le loro scelte vegane o vegetariane per diete eccentriche, senza capire che anche in questo, come in mille altri modi, ricercano e costruiscono un rapporto nuovo, non violento, con il mondo e con tutte le forme di vita.
Non schiacciamoli nei nostri paragoni storici. Stanno costruendo qualcosa di nuovo e diverso dalle vecchie strade del passato. E noi da loro dobbiamo imparare.
Se possiamo fare qualcosa, è proporre temi e problemi su cui camminare insieme. Non vestiamo i panni dei maestri: non ne hanno bisogno. Loro, più di noi, sanno che questo è il più ingiusto dei mondi. Abbiamo bisogno del loro sguardo e delle loro soluzioni.
E allora non limitiamoci a ringraziarli. Accompagniamoli. Difendiamoli. Seguiamoli. Perché in mezzo al buio di questo tempo, i giovani di Catania – con la loro passione e la loro forza – hanno acceso una luce che appartiene a tutti noi.



