Puntualmente, con l’estate e il caldo torrido, con la colonnina di mercurio che sale sempre di più e non scende mai sotto i 30 gradi, torna lo spettro della siccità.
I presidenti di Regione che si sono alternati in questi decenni hanno fatto promesse e proclami, nel solito clima (politico, questa volta) di incompetenza e malaffare. Oggi tocca a Shifani che, insieme alla sua squadra, ha messo in campo un maldestro e approssimativo tentativo di presentare ai cittadini il “nuovo” piano contro la crisi idrica.
Ed ha affidato la scrittura del post social a ChatGPT, dimenticandosi però di rimuovere il prompt: «scrivi un post in prima persona e con enfasi, adatto a un tono istituzionale ma coinvolgente per raccontare l’inaugurazione di alcune opere contro l’emergenza idrica in Sicilia» e copiandolo paro paro sui profili istituzionali di Facebook, generando ilarità e indignazione generale.
Il post è stato poi rimosso, ma il piano è rimasto invariato: investire 290 milioni di euro per cinque dissalatori sull’isola, tre dei quali da riattivare perché abbandonati negli anni. L’ennesima scelta politica di sperperare soldi pubblici in una neverending story che va avanti da più di cinquant’anni: l’ennesima eterna incompiuta del Sud.
Ma facciamo un passo indietro e osserviamo la storia dei tre dissalatori siciliani di Gela, Trapani e Porto Empedocle.
Negli anni ’70, la Regione Siciliana e l’ENI investirono ingenti risorse – oltre cento miliardi di lire – per realizzare a Gela un impianto di dissalazione composto da quattro moduli termici a tecnologia “multi stage flash”: l’acqua veniva prelevata direttamente dal pontile del polo petrolchimico, trattata e remineralizzata.
I risultati furono disastrosi: la qualità dell’acqua prodotta era talmente scadente che le autorità sanitarie dell’epoca la definirono – con un’espressione rimasta celebre, degna del teatro dell’assurdo – “potabile, ma non bevibile”. I cittadini di Gela non l’hanno mai utilizzata per il consumo domestico.
Nel 2015 la Regione, guidata da Rosario Crocetta, sottoscrisse un accordo con ENI per chiudere un contenzioso legato all’impianto, impegnandosi a pagare 105,36 milioni di euro in 10 rate annuali da 10,5 milioni. Tuttavia, il dissalatore restò inutilizzato, senza manutenzione, pur continuando a generare costi. Da un lato, la Regione giudicò la transazione come saldo di debiti “fittizi”, perché la struttura era ormai inutilizzabile. Dall’altro, l’incapacità di rilancio ha generato un esborso di circa 90 milioni di euro per qualcosa di fermo e non operativo.
Nel 1990 entrò in funzione il dissalatore di Porto Empedocle, inserito tuttavia nel contesto di una rete idrica – quella della provincia di Agrigento – fatiscente e obsoleta. A maggio 2012 la Regione decise di acquisirlo da GeDis (gestore privato dei dissalatori di Trapani, Gela e Porto Empedocle) e di trasferirlo alla partecipata regionale Siciliacque.
Inspiegabilmente, anziché iniziare una transizione ordinata, l’impianto venne spento e il personale licenziato. Dal 2012 l’impianto è rimasto fermo, e in questi anni la Regione ha continuato a destinare alla struttura una cifra pari a 16 milioni di euro, e a pagare il servizio di sorveglianza armata – appaltata a privati – che costa 300mila euro all’anno.
Sempre negli anni ‘90 venne realizzato il dissalatore di Trapani, nel cuore (ça va sans dire) della Riserva Naturale delle Saline di Nubia, con l’ambizione di rivoluzionare l’approvvigionamento idrico del Trapanese e persino di parte dell’Agrigentino. Ma ha funzionato a singhiozzo, consumando milioni in gasolio e manutenzione per produrre acqua che non è mai bastata. Oggi, le strutture sono devastate: saccheggiate, vandalizzate, inghiottite dalla vegetazione. Persino le porte e i cavi elettrici sono spariti.
La beffa è che quello di Trapani non è solo un impianto abbandonato, ma un monumento allo spreco: una cattedrale arrugginita nel deserto idrico dell’isola, perché ha avuto – e continua ad avere – un costo.
Il vecchio impianto, progettato con tecnologia di distillazione termica, doveva produrre oltre 8 milioni di metri cubi d’acqua all’anno. Ma, tra guasti, scelte tecniche discutibili e costi proibitivi (30 milioni di euro l’anno solo in gasolio), si è spento definitivamente nel 2015.
Già nel 1999 la Commissione Parlamentare Antimafia aveva documentato come l’appalto per il dissalatore di Trapani fosse stato parte del cosiddetto “patto del tavolino”, il meccanismo con cui Cosa Nostra spartiva i grandi appalti pubblici. Fu Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, a garantire l’affidamento dei lavori all’impresa di Filippo Salomone, protagonista indiscusso degli appalti in Sicilia.
Il caso Trapani finì anche al centro di un’inchiesta della Procura Nazionale Antimafia: oltre alla spartizione degli appalti, emersero tangenti pagate a politici per ottenere i terreni su cui sorge l’impianto. La Commissione Antimafia definì l’intera vicenda come un “esempio concreto dell’ingresso di Cosa Nostra nell’acquisizione effettiva dei grandi appalti”.
Tra il 2006 e il 2014 questi tre dissalatori furono gradualmente spenti o dismessi, giudicati obsoleti e troppo costosi da mantenere. Oggi, dopo oltre vent’anni, questi scheletri di acciaio e cemento tornano alla ribalta, nonostante nulla sia cambiato davvero: né le dinamiche opache, né le priorità.
Nello schema di intervento proposto da Schifani non si è messo in conto che impianti di questo genere – anche solo dopo qualche anno in assenza di manutenzione e di utilizzo ordinario – sono sempre soggetti a fenomeni di corrosione e ossidazione che li rendono quasi certamente non più utilizzabili. E’ molto probabile, quindi, che debbano essere demoliti e ricostruiti, con inevitabile lievitazione dei costi e allungamento dei tempi. Senza riuscire ad affrontare l’emergenza in atto.
Ci si chiede allora se non sia più logico – e doveroso – investire prima nell’ammodernamento delle reti idriche, nella manutenzione delle dighe esistenti, nel potenziamento dei pozzi e nella creazione di invasi intelligenti, piuttosto che inseguire ancora una volta l’illusione del dissalatore miracoloso. Infatti, oltre ai milioni già stanziati, si stima che usare i dissalatori per coprire il fabbisogno di una singola provincia costerà dai 200mila ai 300mila euro al giorno.
Legambiente Sicilia ha bocciato il progetto, definendolo una «soluzione d’emergenza» e non una risposta strutturale al fabbisogno idrico dell’isola, denunciando al contempo la grave inefficienza delle attuali reti idriche e degli invasi regionali. Secondo l’associazione, il vero problema non è solo ambientale, ma economico: l’acqua desalinizzata costerebbe fino a quattro volte di più rispetto agli standard attuali, senza contare le spese per gli acquedotti e il pompaggio delle acque.
L’allarme rimane: secondo Legambiente, l’estate 2025 rischia di ripetere il disastro del 2024, con bacini ai minimi e invasi ridotti a un terzo della loro capacità. Le piogge violente e la siccità non hanno permesso il recupero delle riserve idriche, e il rischio è che la Regione affronti una nuova emergenza con le stesse fragilità.
Al centro del dibattito non c’è solo la scelta dei dissalatori, ma un nodo più profondo: quello di un sistema idrico obsoleto, inefficiente e in parte ancora ostaggio di gestioni opache e carenze infrastrutturali. Una rete ridotta a un colabrodo non può reggere l’impatto della crisi climatica. Ed è proprio da qui che prende forma il prossimo nodo da sciogliere: l’ammodernamento radicale delle infrastrutture idriche siciliane.
Mentre la Regione investe centinaia di milioni per tentare di resuscitare impianti inefficienti e mai realmente entrati a regime, l’intero sistema idrico siciliano perde in media il 52% dell’acqua immessa in rete. Ad Agrigento le perdite raggiungono il 60%, mentre a Siracusa il 65%. Le dighe, gli invasi e i pozzi – vere fonti di approvvigionamento stabile – sono abbandonati o sottoutilizzati.
I 47 invasi siciliani hanno complessivamente una capacità di 1,1 milioni di m³, ma solo 700mila m³ sono effettivamente utilizzabili ad oggi. 26 invasi sono fuori uso o limitati. L’emblema di questo scempio è la “diga” Trinità a Castelvetrano (TP): costruita 70 anni fa ma mai collaudata, con problemi strutturali mai risolti. L’acqua di questo invaso viene gettata in mare, aggravando la rabbia di agricoltori e cittadini. Nel 2018 erano stati stanziati 3 milioni per lavori di manutenzione, ma i fondi sono svaniti nel nulla.
La diga di Pozzillo – una delle più grandi risorse idriche per l’area di Catania – ha una capacità originaria di 150 milioni di metri cubi, ma l’accumulo di sedimenti e la mancanza di manutenzione ne hanno ridotto la capacità a 60 milioni di m³. Si attende ancora un intervento finanziato con i fondi del PNRR da 40 milioni di euro per ripristinare la funzionalità dello scarico di fondo, che tuttavia permetterà di tornare solo a 120 milioni di m³.
In Sicilia, mentre si rincorrono soluzioni fantasiose e si riesumano impianti arrugginiti come se fossero la chiave del futuro, l’acqua continua a disperdersi nel sottosuolo e a riversarsi in mare senza essere trattata. Il paradosso è evidente: si promette il mare in bottiglia, ma non si è capaci di riparare i rubinetti che perdono. E allora, prima di parlare di nuove grandi opere, bisognerebbe avere il coraggio – e la competenza – di mettere mano a ciò che già esiste e cade a pezzi. Perché senza una rete moderna e funzionante, ogni litro dissalato rischia di essere solo l’ennesimo investimento buttato a mare.
Si possono citare, in un articolo di giornale, solo alcune frasi di una nota inviata…
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In Sicilia occorrerebbero dighe, invasi, e reti idriche che possano permettere, operando travasi, di non disperdere acqua dolce in mare e produrre energia elettrica pulita per alleggerire le bollette dei Siciliani. Quando, questo discutibile governo siciliano, richiederà allo Stato il pagamento per l'indennizzo dell'esproprio dell'Ente Siciliano Elettricità ?