Domani, venerdì 13 giugno nel cortile della Camera del Lavoro, via Crociferi 40, alle ore 19.30, con ingresso libero, verrà proiettato il film “From Ground Zero”, considerato dalla critica come un rivoluzionario esempio di cinema-verità. Presentato in anteprima, a Catania, il 7 aprile scorso al monastero dei Benedettini, viene riproposto per iniziativa dell’associazione comunista Olga Benario e di Assopace Palestina.
Realizzato nel 2024 tra le macerie e sotto i bombardamenti di Gaza, raccoglie 22 brevi cortometraggi girati da giovani registi, di età tra i 19 e i 28 anni, della scuola di cinema Palestinese organizzata dalla Fondazione Masharawi. Ogni cortometraggio, di durata compresa tra i 3 e i 6 minuti, presenta un punto di vista originale sulla realtà di Gaza e sulle esperienze di vita della sua popolazione, fra la tragedia dei bombardamenti e lo spirito di sopravvivenza di un popolo.
Il film – da non perdere – rappresenta un documento storico dell’attuale tentativo di genocidio e, insieme, “la potente dichiarazione politica e artistica di un popolo che, dalla Nakba in poi, ha imparato ad aggrapparsi al futuro, rifiutandosi di sparire dalla Storia”.
Le notizie che giungono dalla Palestina impongono di tornare sul dramma di Gaza e di soffermarsi a riflettere su quello che lì accade, compreso il recente abbordaggio della Madleen della Freedom Flotilla in acque internazionali, con sequestro della nave e dell’equipaggio.
Ai 12 attivisti internazionali presenti sulla nave è stata offerta l’opzione di firmare il consenso all’espulsione immediata o di essere sottoposti a processo. Quattro di loro, tra cui Greta Thunberg, hanno scelto la prima opzione e sono già stati espulsi. Per gli altri otto, ancora detenuti, i giudici non hanno avallato la proposta del pubblico ministero che chiedeva 30 giorni di carcere, e saranno espulsi tra oggi e domani.
Questo episodio ripropone, se mai ce ne fosse bisogno, gli interrogativi sui comportamenti dello Stato di Israele e sulla natura della sua ‘democrazia’. Ma costringe anche ad ampliare lo sguardo e a ragionare sulle decisioni, sulle prese di posizione, persino sulle radici, di tutta la “nostra lodata e laica democrazia occidentale”.
Lo fa oggi, su Argo, Felice Rappazzo, già docente di letteratura italiana dell’Università di Catania.
L’hanno fatto, come era prevedibile e previsto. Equipaggi delle forze armate israeliane hanno abbordato la barchetta della Freedom Flottilla al largo dell’Egitto, ovviamente in acque internazionali, e hanno fermato l’equipaggio, confiscato i pochi aiuti alimentari e sanitari, preso in giro i militanti umanitari e politici, annunciato che li rimpatrieranno.
Una soluzione “soft”, rispetto a quella già riservata a una nave umanitaria turca, anni fa, e ad un’altra della stessa flottiglia, al largo di Malta, qualche settimana fa. In quei casi con uso di armi, con gli effetti sanguinosi, nel primo caso, e con gravi danni, nel secondo.
Si vede che l’attenzione mediatica molto vasta, la presenza di figure di spicco dentro la navicella, hanno, se non altro, attenuato le modalità dell’impatto. Ma a pesare dev’essere stato anche la mobilitazione senza precedenti che un po’ in tutto il mondo, e perfino nelle nostre sonnolente contrade, ha messo in primo piano il massacro di Gaza, le violenze della Cisgiordania, gli attacchi ai Paesi confinanti e così via.
Perfino il mantra falso e idiota, fino a ieri intoccabile, che chi critica Israele è antisemita, comincia a vacillare, anche fra le anime belle. Il rifiuto di questa equazione è stato accettato anche su qualche palco mediatico e politico, perfino fra i “moderati”.
Del resto perché avrebbero Israele avrebbe dovuto astenersi dall’abbordaggio? Chi glielo avrebbe impedito?
Se si ha la forza, si ha il diritto/Si bada al cosa, non al come./O non m’intendo di marineria/O guerra, commercio, pirateria/Sono tre in uno, inseparabili.
A pronunciare queste frasi è Mefistofele, nel II Faust di Goethe, ai vv. 11184-88. Per chi non lo sapesse, questo diavolo non è poi così cattivo; è una figura infernale di seconda scelta, più furbo e opportunista che altro. Ma è uno che sa che cos’è il mondo, che non si presenta mai con il suo vero volto: che del resto non esiste in quanto tale. Figura di contorno al potere, fa dell’adattamento all’ambiente, del metamorfismo la sua forza. Una figura quanto mai attuale, un vero emblema della modernità.
Guerra, commercio, pirateria sono una sorta di nuova trinità, cinica e secolarizzata, della modernità capitalistica (ma, non illudiamoci, anche dell’antichità). E anche a proposito del rapporto Israele-Palestina, vale sempre ripensare alla frase di Brecht: “compagni, badate ai rapporti di produzione”: ossia, in radice, alle classi sociali. Forse il mio è un attardato modo di pensare, ma continuo a crederci. La questione rimanda, in fondo, al colonialismo, e alla sua necessaria radice classista, certamente complicata, nel caso in specie, da moltissimi altri e seri elementi storici e psicologici, che qui non è il caso di elencare, ma che sono ben noti.
Come li chiamavano qualche anno fa? Stati canaglia? Si trattava di Stati che non piacevano agli Stati Uniti e ai suoi alleati. Non c’è dubbio che elementi canaglieschi ci fossero in questi Stati, il cui elenco variava a seconda delle necessità e opportunità dell’Occidente globale, ma perché non impariamo a guardare anche in casa nostra? Non è forse la componente canagliesca del tutto interna alle strutture di potere, anche negli Stati “democratici”?
Prendiamocela pure con Israele, dubitiamo pure, e necessariamente, della sua democrazia (che si esprime sostanzialmente nel consistente manipolo di “giusti” che la tengono in piedi: quei giusti, ossia quegli uomini e donne ospitali – cfr. Ezechiele, 16, 49 –, vanamente cercati, già nel Vecchio Testamento, in Sodoma), ma in questo caso dovremmo anche confrontare questa “democrazia” su base etnica, per par condicio, tanto con la teocrazia dell’Iran (per citare uno degli Stati Canaglia così cari agli USA, ma Paese ricco di cultura e vivacità) quanto con la nostra lodata e laica democrazia occidentale: capace di usare tranquillamente e contemporaneamente un doppio standard, secondo convenienza, per amici e nemici.
Tuttavia concordo con chi, nei tempi lunghi, prevede come unica via possibile alla pace reale fra israeliani a palestinesi che essa passi necessariamente (ma ormai con quante difficoltà!) da un’alleanza fra le dissidenze interne ai popoli, da una rivolta morale e politica che crei ponti e movimenti. Un pio desiderio, forse.
Tuttavia non posso dimenticare un ragionamento che, decenni fa, ebbi a udire, a Gerusalemme, dal politologo sociologo e attivista israeliano Zvi Schuldiner: non crediate, diceva quest’uomo di pace, che Israele sia un Paese speciale, nel bene e nel male. L’abitudine al quotidiano, la rassegnazione all’ingiustizia e al male è un fenomeno tipico delle società complesse e moderne. Il male è sempre alle viste, ma la vita quotidiana ci rende indifferenti; i dati di fatto, nella loro materialità, sono, come sempre, la vera egemonia culturale.
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