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Seminario d’Ateneo, istituzioni e società civile contro la mafia

Chi può contrastare quel fenomeno pervasivo che è la mafia, in grado di condizionare la nostra vita personale e quella di tutta la comunità, mettendo a rischio la convivenza civile? Lo possono fare da una parte le istituzioni, dall’altra la società, quando si mettono in gioco in modo attivo, senza rassegnarsi a ciò che sembra inevitabile.

Un contrasto che non è mai indolore neanche quando è operato dalle istituzioni, spesso dopo forti conflitti, di cui è stato teatro anche il Parlamento. Tanto più quando ne sono stati protagonisti uomini e donne che hanno impegnato in questa lotta la loro esistenza, fino a pagare con la vita stessa.

Così Adriana Laudani, presidente dell’associazione Memoria e Futuro, ha introdotto il quarto incontro del Seminario d’Ateneo 2024, incentrato sul tema della legislazione antimafia. E ha ricordato “i grandi maestri” di questa lotta alla mafia, a partire dal giudice Rocco Chinnici, il primo ad andare nelle scuole per cercare di stringere un’alleanza con i giovani, perché aveva capito che la mafia non si poteva sconfiggere restando chiusi nel palazzo di giustizia.

Ha ricordato poi Pio La Torre, per lei non solo maestro ma anche amico, a cui dobbiamo la proposta di legge che per la prima volta configurava il reato associativo e prevedeva misure patrimoniali contro l’accumulazone illecita di capitali. Una legge – ha ricordato ancora Laudani – la cui intelaiatura fu costruita insieme al giudice Cesare Terranova (ucciso anch’egli dalla mafia) ma che venne approvata, nel settembre 1982, dopo l’assassinio dello stesso La Torre e anche del generale Della Chiesa.

Un mattone importante, questa legge, di quella che diventerà la migliore legislazione antimafia del mondo, quella italiana, tuttora oggetto di studio ed essa stessa in via di evoluzione, anche perché è diventata stringente la necessità di tenere sempre più conto del quadro sovranazionale.

Il percorso della legislazione antimafia è stato descritto, in modo dettagliato e documentato, da Annamaria Maugeri, ordinaria di diritto penale presso il Dipartimento di giurisprudenza, a partire dalla situazione italiana ma allargando via via l’orizzonte fino a comprendere i regolamenti e le direttive europee, che devono poi essere recepite dagli Stati membri dell’Unione.

Con la legge La Torre non solo l’aspetto economico diventa prioritario nel contrasto al crimine organizzato, ma vengono introdotti provvedimenti di grande rilevanza come il sequesto e la confisca di prevenzione, che pongono, tuttavia, non pochi problemi.

Si procede, infatti, ad una sorta di processo al patrimonio che, sulla base di indizi come il divario ingiustificabile tra il tenore di vita e l’entità dei redditi dichiarati, può essere ritenuto frutto di attività illecite o costituirne il reimpiego.

I problemi connessi sono molto complessi, riguardano l’onere della prova e la tutela delle garanzie di chi è sottoposto a questi provvedimenti, persone ritenute socialmente pericolose ma a carico dei quali servono gravi elementi sia pure indiziari. Non è possibile, infatti, sottrarre patrimoni e stigmatizzare qualcuno come criminale solo sulla base di generici sospetti.

Quale deve essere lo standard della prova? Maugeri lo definisce “uno standard civilistico rinforzato”, intermedio tra quello civile e quello penale, che prevede, invece, una prova ‘oltre ogni ragionevole dubbio’.

L’adozione delle misure di prevenzione è stata comunque ritenuta necessaria, anche a livello europeo, per contrastare la portata transnazionale della criminalità organizzata e la sua capacità di infiltrazione economica. E’ arrivato anche il sì della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha definito queste misure “uno strumento contro il cancro della mafia”, efficaci anche contro il narcotraffico e la corruzione, purché – ha spiegato Maugeri – venga garantito un giusto processo ed assicurato il diritto alla difesa.

Attualmente – ha aggiunto la relatrice – è in via di elaborazione una nuova direttiva che dovrebbe consentire la confisca anche senza condanna purché sia dimostrata l’esistenza del reato e il fatto che i proventi sequestrati ne siano il frutto.

Un tentativo di conteggiare scientificamente gli effetti dell’operato della mafia e di calcolare i danni da essa creati sul nostro territorio è stato fatto da Livio Ferrante, docente di Economia politica, che ha esposto i risultati di una ricerca di econometria a cui ha collaborato. Una ricerca che conferma l’importanza dei beni confiscati alla mafia ma solo nel caso che vengano riassegnati per scopi sociali.

Mettendo da parte gli impatti diretti dell’operato della mafia, la ricerca si è concentrata sulle influenze indirette di questo operato, relative in particolare allo sviluppo tecnologico, alla qualità della classe politica e degli amministratori, ad istruzione e social capital.

La conclusione del lavoro di indagine è che l’azione della mafia rallenta lo sviluppo, anche tecnologico, e peggiora la qualità di politici ed amministratori, che diventano uno specchio del potere lobbistico della criminalità organizzata. Neanche lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose e la confisca dei beni risultano determinanti per l’indebolimento della mafia, a meno che i beni non vengano riassegnati per scopi sociali. Solo in questo caso emergono ricadute significative anche sui comportamenti elettorali, sulla partecipazione al voto e persino sulla presenza di donne elette nei consigli comunali.

Cosa possa rappresentare in concreto, per la società, l’utilizzo a fini sociali di un bene confiscato lo ha raccontato Salvo Cacciola, sociologo e presidente della Rete della Fattorie Sociali Sicilia, presentando l’esperienza della Fattoria Sociale Orti del Mediterraneo, un “parco tematico inclusivo”, aperto ai cittadini, alle scolaresche e ai ricercatori, integrato con un’attività agricola di produzione, di trasformazione e commercializzazione di prodotti con marchio etico e biologico.

In questo bene confiscato, gestito dalla cooperativa sociale Energ-Etica, sono stati avviati una serie di progetti che, in breve tempo, hanno permesso – oltre che di ristruttare l’edificio centrale – di dare lavoro a ragazzi dello spettro autistico realizzando orti didattici e una vera e propria attività agricola a cui si aggiunge quella di trasformazione dei semi di canapa e di estrazione di pappa reale dagli alveari.

Un esempio di buona prassi che non ha impedito a Cacciola di evidenziare tutto quello che ancora non va nella gestione dei beni confiscati, spesso abbandonati all’incuria o penalizzati da ritardi e vuoti normativi che andrebbero colmati.

Argo

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