Anche se vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti. Il processo Ciancio e la Città

L’assoluzione di Mario Ciancio Sanfilippo, sia pure in primo grado, è avvenuta con formula piena, “il fatto non sussiste”. E il fatto, come sappiamo, è il concorso esterno all’associazione mafiosa. I giudici, evidentemente, non hanno considerato convincenti le prove addotte dai pubblici ministeri e, dopo un percorso tormentato del processo (richieste di archiviazioni e rinvii a giudizi, sequestro e dissequestro di beni, pronunciamento della Cassazione), hanno ritenuto che l’accusa non fosse dimostrata.

Il 14 novembre 1974, sul Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini scriveva “Cos’è questo golpe? Io so”. Ma aggiungeva: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Sono passati 50 anni, ma, dopo aver appreso l’esito di questa sentenza, è impossibile non ricordare quella denuncia.

Non tocca a noi entrare nel merito della sentenza, in ogni caso ora sarebbe impossibile non conoscendone le motivazioni, e, per la nostra idea di giustizia, che cerchiamo di applicare sempre – e verso tutti – per una persona anziana non avrebbe avuto comunque alcun senso la detenzione carceraria.

Ma la sentenza non può esimerci dal ragionare sul blocco di potere di questa nostra Città, che, come scrive l’avvocato Enzo Guarnera, è un “Sistema roccioso, frutto di un perverso e storico impasto di mafia militare, ceto politico, imprenditoria, settori professionali, esponenti delle istituzioni ai vari livelli, sovente tenuti assieme dalla massoneria deviata”.

Il ruolo apicale di Ciancio nella vita cittadina non è stato mai negato, neanche dalla Gup Bernabò Distefano che richiese il non luogo a procedere ma descrisse Ciancio come “dominatore assoluto” delle principali vicende della città e della provincia, “punto di riferimento di affari di vario genere.”

Ci chiediamo, perciò, se le attività dell’imprenditore Mario Ciancio, in primo luogo, e in una situazione di sostanziale monopolio, quella editoriale non abbiano contribuito a rendere questo sistema di potere “digeribile” per tanti cittadini e un’opinione pubblica che ha preferito, voltarsi dall’altra parte e negare addirittura l’esistenza della mafia nella Sicilia Orientale. Almeno sino alla famosa intervista del generale Alberto Dalla Chiesa a Giorgio Bocca ( 10 agosto 1982) e all’omicidio di Giuseppe Fava (5 gennaio 1984).

Di più, man mano che la realtà dimostrava come Catania fosse tutt’altro che un’isola felice troviamo Ciancio, peraltro in buona compagnia (ricordiamo, fra gli altri, Pippo Baudo), in prima linea per difenderne “l’onorabilità”, da presunti “corvi” esterni. Ci sembra, perciò, interessante quanto scriveva, il 5 novembre del 1991 su L’Unità, il giornalista Ninni Andriolo: “Mario Ciancio proprietario terriero, potente uomo d’affari, politico di razza che a Catania conta più di un sindaco e più di un deputato anche se non ha mai occupato poltrona in Parlamento o scranno in consiglio comunale. E’ l’editore, e nello stesso tempo, il direttore del quotidiano La Sicilia. Nel suo studio, tra fasci di ginestre e antiche ceramiche siciliane, sono stati creati e disfatti assessori, onorevoli magistrati. Sono stati trattati affari, affitti d’oro di sedi USL di proprietà dell’editore e dislocazione di ospedali nelle zone più impensate”.

Non solo editore, ma proprietario fondiario e imprenditore a tutto campo, Ciancio è riuscito a fare incrementare il valore di mercato dei propri terreni di tipo agricolo, facendo approvare le varianti urbanistiche necessarie a convertirli in edificabili e dimostrando quindi di poter orientare a suo favore atti della Pubblica Amministrazione.

Senza entrare nel merito delle ditte a cui sono stati affidati i lavori, alcune in odore di mafia (ma aspettiamo, come dicevamo, le motivazioni della sentenza di assoluzione), resta il fatto che le operazioni speculative portate avanti dal Nostro non possono dirsi utili alla città. Hanno prodotto colate di cemento e costruzioni di supermercati che hanno deturpato il territorio e reso ricchi pochi ‘amici’, mentre Catania rimaneva sempre più abbandonata a se stessa e popolata da lavoratori poveri e per lo più precari, mentre chi poteva e chi può – tra i giovani – se ne allontana per realizzare altrove i proprio obiettivi.

La sentenza dice che non ci sono stati comportamenti penalmente rilevanti. Negare un coerente impegno consociativo con il gruppo di potere, politico-imprenditoriale, affermatosi a Catania dopo il sacco di San Berillo non pare però possibile.

Nel suo saggio “Una città in pugno”, Antonio Fischella parla di “alleanze cementate da una visione condivisa in cui l’attività economica è praticata come rendita e speculazione, mentre il potere politico è vissuto come mera occasione di affari predatori”. Secondo un modus operandi che non nasconde un “cronico fastidio verso le regole della convivenza civile e un’ostinata e radicata tendenza ad aggirare norme e leggi per fare trionfare i propri interessi”.

Scrive Claudio Fava “Non mi interessa, su Ciancio, ripercorrere tappe ed episodi sui quali esiste una generosa letteratura (il mio libro, “La mafia comanda a Catania”, è del 1991: 33 anni fa!). Né lamentare necrologi censurati, foto chirurgicamente ritagliate, depistaggi accompagnati per mano (su tutti, se mi è concesso, quello sull’assassinio di Giuseppe Fava, sul quale La Sicilia di Ciancio, la Procura della Repubblica di Catania e la buona borghesia catanese si esercitarono – dolosamente – per anni nel negare la mano della mafia)”.

Anche se vale la pena ricordare il licenziamento dei giornalisti di Telecolor, avvenuto nel 2006. Un evento che spiega perfettamente come intendesse la libertà di stampa l’editore Ciancio. La Cassazione ha dato ragione ai giornalisti. Antonio Morale, ricostruisce così l’episodio: “Ciancio pretendeva che i giornalisti accettassero la presenza di una redazione parallela che non rispondeva al direttore di testata, bensì direttamente alla figlia dell’editore. Insomma la “proposta indecente” era quella di scambiare il posto di lavoro, lo stipendio, con un bavaglio. “Proposta indecente” che venne rifiutata dai giornalisti”. Oltre a determinare le dimissioni da direttore della testata di Nino Milazzo.

Anche in questo caso, tranne poche eccezioni, la Città si voltò dall’altra parte, in sostanza il solito “silenzio assordante”.

Rimane un’ultima domanda, perché Catania si è sostanzialmente disinteressata a questo processo, che, per la caratura del protagonista, sarebbe dovuto stare costantemente agli onori della cronaca? Perché, tranne rare eccezioni, quasi nessuno ne ha seguito le udienze, che pure hanno rappresentato occasioni formidabili per conoscere da vicino il “modello Catania”?

“Sono stato fortunato” così, dinanzi a giudici allibiti, Giovanni Vizzini, socio dell’editore catanese, spiega i 700 mila euro incassati dall’operazione Porte di Catania. Sembra di assistere ad una commedia e invece è il processo a Mario Ciancio. Come questo, tanti altri momenti del processo si sarebbero dovuti far conoscere all’opinione pubblica.

Avrebbero permesso di riflettere su Catania, magari di individuare prospettive alternative a quelle della speculazione finanziaria. Invece silenzio, anche da chi, come il Comune e l’Ordine dei giornalisti di Sicilia, si erano costituiti parti civili. Meglio far finta che non sia accaduto nulla. Che, ragionando così, la Città proseguirà nella sua discesa negativa, pare non interessi ai più.

Leggi la lettera aperta di Enzo Guarnera a Mario Ciancio

Argo

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  • i processi alle classi al potere , creati dal famoso senatore LUCIANO VIOLANTE con la creazione del reato di associazione esterna ha sortito solo l'effetto contrario e cioè LA FINE DEI PARTITI ED IL RAFFORZAMENTO DELLA CLASSE AL POTERE. Di questo successo la classe vincente e cioè quella datoriale deve rendere grazie alla magistratura .Sono comunque del parere che il tipo di lotta suggerita da Violante ha solo impoverito l'Italia ed ha fatto morire i PARTITI. Di questo triste evento adesso soffriamo e fino a quando i partiti non riemergono la classe povera e quella media non potranno riemergere.

  • I commenti della stampa, come al bar, si sono focalizzati sulla sentenza, non sul danno che Ciancio ha fatto alla città, con il monopolio dell'informazione per quarant'anni, con le varianti urbanistiche sui suoi terreni con la compiacenza degli uffici comunali, e si potrebbe continuare

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