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Meloni a Catania, le tasse sono un ‘pizzo di Stato’

Davvero inquietante sentire la presidente del Consiglio definire le tasse un “pizzo di Stato”. E in una città come Catania, dove molti commercianti e piccoli imprenditori sono ancora costretti a subire il giogo dell’estorsione, che arricchisce la mafia e uccide economia e libera concorrenza. Affermarlo è stato uno schiaffo a chi al pizzo cerca di sottrarsi, dimostrando coraggio e denunciando. Una svalutazione dell’operato di quelle associazioni antimafia che continuano a lavorare per convincere i commercianti a non pagare e si impegnano a sostenere a livello legale chi decide di sottrarsi al capestro.

In clima pre-elettorale i big dei partiti si concedono tante libertà pur di raccattare voti, ma questo è davvero troppo. Qualcosa comunque si è spezzato da tempo.

Non vogliamo dire che il sistema fiscale non sia da modificare, che non ci siano storture da correggere, oneri eccessivi a carico di chi stenta a portare avanti la propria attività o di chi ha un reddito fisso. Senza dimenticare la diffusa elusione fiscale messa in atto dai poteri economici che aggirano il fisco con espedienti formalmente ineccepibili.

Ma quello che ci sembra sia venuto a mancare è il senso stesso del contributo che ogni cittadino deve dare alla vita collettiva.

Vorremo chiedere a Meloni, ai suoi colleghi di partito, ai sostenitori che l’hanno applaudita, e anche ai piccoli commercianti che sono stati da lei blanditi: ma voi i figli a scuola ce li mandate? sulle strade ci camminate? alle cure mediche ci ricorrete? in caso di necessità, andate al pronto soccorso?

Certo che sì. Anzi spesso siete i primi a lamentarvi della sanità che non funziona, delle strade che non sono ben tenute, degli asili pubblici che non ci sono, e via discorrendo.

E come credete che la sanità possa garantirvi cure adeguate? come possono essere mantenute in vita le scuole esistenti e costruite quelle mancanti? come possono essere asfaltate le strade o manutenzionate le linee ferrate? Con quali risorse se non con i soldi delle tasse che i cittadini pagano, o che almeno dovrebbero pagare, ognuno in proporzione a quanto possiede, a quanto guadagna, come dice la Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Non si può chiedere allo stato di darci i servizi, la sanità, la scuola, le infrastrutture, e per di più intervenire con ulteriori risorse in caso di calamità naturali (terremoti, alluvioni etc), se non si ha chiaro che da qualche parte queste risorse devono venire fuori. E vengono fuori innanzi tutto dalle tasche dei cittadini, di coloro che hanno deciso di vivere insieme, in società, e non di fare gli eremiti mangiando locuste.

Perché la vita sociale ha le sue esigenze, le nostre esigenze, e ha bisogno che ognuno ci metta del proprio, in modo da vivere tutti meglio.

Vero è che ci sono stati tanti scandali, che non di rado i soldi dei cittadini sono finiti nelle mani sbagliate, sono stati adoperati non per realizzare o migliorare i servizi, bensì per arricchire qualcuno, a discapito delle necessità di tutti. Approfittando dell’assenza di controllo dei, e sui, pubblici amministratori.

Ma noi cittadini abbiamo davvero protestato per questi scandali, abbiamo smesso di votare i politici che li hanno realizzati o coperti, abbiamo preteso e controllato che i nostri soldi fossero utilizzati per il bene comune? O siamo stati tra coloro che hanno continuato a sostenere chi aveva fatto il furbo, anzi lo abbiamo apprezzato e considerato un modello, soprattutto se, in cambio del nostro sostegno, ci prometteva (spesso senza darcelo davvero) un favore, un posto di lavoro, uno sconto sulle tasse.

Ci è sembrato conveniente poter pagare di meno, e intanto, a furia di promesse di minori tasse da pagare, ci veniva tolto l’accesso a certi farmaci o a certi ambulatori medici, la qualità delle scuole peggiorava, i treni venivano ridotti di numero e la qualità dei trasporti peggiorava, pensioni e stipendi restavano al palo.

Ci facevamo i conti sugli euro risparmiati (in apparenza) pagando meno tasse ma non ci facevamo i conti su quello che stavamo perdendo in possibilità di curarci bene o di viaggiare in sicurezza. Fino a che una catastrofe nazionale come un disastro ferroviario, o l’arrivo di una malattia imprevista venuta a sconvolgere la nostra vita, ci apriva gli occhi e ci faceva vedere quello che avevamo perduto. O forse no, neanche in questo caso abbiamo capito, e nessuno si è preoccupato di spiegarcelo. Neanche le forze politiche che, timorose di perdere il consenso, mettevano in secondo piano la difesa del bene comune.

Argo

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