Parco Monte Po – Acquicella. I manufatti distrutti. Dopo il parcheggio cresce l’allarme

La speranza di realizzare un grande parco nell’area che va dalla collina di Monte Po alla foce del fiume Acquicella è ancora viva tra i promotori che si sono anche dati da fare per studiare le caratteristiche dei vari contesti che la caratterizzano e proporne la valorizzazione.

Tante le associazioni che hanno aderito alla proposta di Parco, con in prima fila la Lipu di Giuseppe Rannisi e vari esperti, botanici, zoologi, archeologi che hanno collaborato alla redazione di un libro bianco di analisi e proposte, consegnato anche alla amministrazione comunale, che lo ha apprezzato al punto da inserire il progetto nel Piano Integrato della Città Metropolitana, destinandovi la somma di circa 15 milioni di euro.

L’amministrazione, tuttavia, dopo aver dato l’impressione di sposare il progetto, non si è mostrata coerente e ha dato l’ok alla realizzazione di un enorme parcheggio che toglierebbe spazio al Parco. Ma c’è di più, l’intervento ha delle caratteristiche poco chiare che richiedono un approfondimento  e ci hanno indotto ad avanzare una richiesta di accesso agli atti.

In attesa di un riscontro, cerchiamo di capire qualcosa di più dagli elementi in nostro possesso.

Nel provvedimento, emesso dalla Direzione Attività Produttive, non si parla esplicitamente della costruzione di un parcheggio. Viene invece autorizzato un intervento di “ristrutturazione urbanistica” in un’area dove non c’è però alcun tessuto urbanistico-edilizio, tranne pochi fabbricati semidiruti che occupano una posizione marginale rispetto all’area e la cui presenza viene poi, nei documenti, totalmente ignorata. 

Eppure si tratta di fabbricati di cui varrebbe la pena occuparsi, se non altro per sollecitare la Soprintendenza a verificarne la qualità e il valore storico-antropologico, in vista di una loro conservazione.

Per questo abbiamo chiesto ad un amico ingegnere, appassionato cultore di memorie storiche e difensore dell’ambiente, membro del Fai e di altre associazioni attente al territorio, Giambattista Condorelli, di aiutarci a descrivere i fabbricati e ricostruirne la probabile funzione.  Cosa che egli ha fatto con molta precisione, inviandoci anche le foto che qui pubblichiamo. 

Non pensavamo certo, né lui né noi, che qualche giorno fa una nuova visita ai luoghi avrebbe rivelato un fatto grave e preoccupante, che va denunciato e su cui è necessario riflettere: la distruzione di una delle strutture che faceva parte del piccolo complesso e la cui esistenza – precedente allo scempio – è testimoniata dalle immagini.

Ma procediamo con ordine. Un mese fa, Condorelli così scriveva:

“I fabbricati sono raggiungibili percorrendo la stradella che inizia tra i civici 875 e 877 della Via Palermo. Oltrepassati cumuli di immondizia e scavalcato il fiume Acquicella, si raggiungono un gruppo di costruzioni dirute, site ad appena 70 metri dalla strada. Le carte topografiche non ne riportano il nome, ma esse sono perfettamente individuate nel Catasto alle particelle 3087 (mq 162), 3088 (mq 87), 3089 (mq 125) e 3090 (mq 248).

Gli edifici sono tutti privi di tetto ma, in un paio di casi, conservano l’intelaiatura di sostegno in legno che fa pensare che le tegole originali non siamo crollate ma semplicemente siano state rubate. I volumi sono tutti ad una sola elevazione, tranne l’edificio di cui alla particella 3090 che è costituito da due piani e presenta un’architettura semplice ma decorosa, per cui vi si potrebbe riconoscere la “casa patronale” del fondo agricolo. La funzione degli altri volumi era probabilmente quella di magazzini per attrezzi o prodotti agricoli o ancora di alloggio per gli operai.       

Proseguendo, subito dietro gli edifici di cui alle particelle 3087 e 3088, si trova un pozzo a sezione quadrata, di profondità da misurare, ma si direbbe circa 8 metri sotto il piano di calpestio e fuoriuscente da esso per un’altezza anch’essa da misurare, ma valutabile in circa 5 metri. Poiché esso si trova a soli 28 metri dal fiume Acquicella, è ragionevole supporre che, quando il corso d’acqua scorreva in un letto naturale e non era ancora irreggimentato (come è oggi) dentro un canale in calcestruzzo armato, esso pescasse acqua dal subalveo del piccolo fiume e, mediante una zenia, sollevasse l’acqua ad una quota sufficiente per essere condotta tramite una canaletta, là dove poteva essere utile per i servizi della casa patronale o per uso irrigazione.

Ed ecco infatti spuntare un piccolo acquedotto o, per lo meno, le sue prime tre arcate consecutive che ci indicano la direzione in cui si voleva condurre l’acqua, che sembrerebbe verso le falde della collina, alle spalle e appena più in alto degli edifici, tanto quanto poteva bastare per raggiungere una posizione dalla quale scendere in caduta libera verso gli utilizzi. Ma per dare certezza a questa ipotesi bisognerebbe cercare in mezzo alla vegetazione ulteriori residui di opere idrauliche alle spalle della casa patronale. 

Una datazione per tutto il complesso? Per ipotizzarla occorrerebbe che fosse studiato da un esperto di costruzioni dei tempi passati. Un dato è però certo: la copertura del pozzo, atta a sostenere la zenia, non è realizzata con una semplice soletta piana in calcestruzzo armato, come si sarebbe fatto nel corso del Novecento, ma è costruita ad arco, il che fa supporre che il complesso risalga alla seconda metà dell’Ottocento o a tempi antecedenti a tale periodo. 

In ogni caso il complesso restaurato rappresenta la testimonianza di un metodo di prelievo dell’acqua da un corso pubblico che non sembra avere simili lungo il corso del fiume Acquicella e forse anche lungo gli altri modesti corsi d’acqua che scorrono in prossimità della città. Meriterebbe quindi una particolare tutela per offrirlo alla visita.

Allontanandosi verso ovest, a 110 metri dal caseggiato, si trova infine una vasca a cielo aperto, in dialetto si direbbe una gebbia, certamente per uso di irrigazione, del diametro di 7,60 metri e profonda un metro e mezzo. Ci si aspetterebbe che il piccolo acquedotto portasse acqua in questa vasca, ma la direzione delle tre arcate sopravvissute non consente questa ipotesi. E allora ci si chiede: come veniva riempita questa vasca? Tutto cancellato dalle successive e più recenti lavorazioni del fondo, oggi abbandonate?”

Contestualmente alla descrizione dei fabbricati, Condorelli suggeriva anche la possibile destinazione di uno di essi.

“Attesa la limitata dimensione della supposta casa patronale (mq 248 per ciascuno dei due livelli), essa si candida con facilità ad ospitare il centro visite dell’auspicato Parco Monte Po-Acquicella, a differenza delle più lontane Case De Geronimo, molto estese, site in un contesto molto degradato e il cui restauro avrebbe costi insostenibili”.

Qualche giorno fa, recandosi con altri sul luogo per un ulteriore sopralluogo, Condorelli trovava abbattute le tre arcate del piccolo acquedotto, e così scriveva

“Ma le tre arcate del piccolo acquedotto non ci sono più, giacciono a terra, distrutte, in mezzo alla vegetazione. Perché? Forse perché esse rappresentavano l’elemento più suggestivo del piccolo complesso edilizio, il più intrigante, l’unico che da solo avrebbe giustificato una procedura di tutela da parte della Soprintendenza ai B.B.C.C.A.A.. Abbattuto il piccolo acquedotto, ciò che rimane è una casa di campagna, alcuni annessi ed un pozzo, come ce ne sono tanti. Evidentemente qualcuno ha voluto togliere di mezzo ogni possibile scusa per non lanciare un salvagente e salvare il grumo di case”.

Un motivo in più per cercare di capire cosa stia accadendo in quell’area.

Argo

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