Reddito di cittadinanza, fannulloni o mancanza di lavoro?

Una “divanologia trasversale a tutti partiti, che è diventata senso comune”, diffondendo l’idea che i percettori del reddito di cittadinanza siano nullafacenti che si riutano di lavorare. Si esprime così Chiara Saraceno, esperta di politiche sociali, nel format Mezz’ora con di Memoria e Futuro dello scorso 6 dicembre.

Con pacatezza ma con fermezza mette a nudo la situazione, ricorda che tutti i paesi europei hanno “misure di garanzia per i poveri”, senza distinguere tra occupabili e no, e che l’Italia è arrivata in ritardo, ultima in Europa, ad introdurla.

Una categoria, quella degli occupabili, che la sociologa definisce “astratta”, in quanto non tiene conto della situazione reale. Come si può definire occupabile un adulto, al di sopra dei 18 anni e sotto i 65, non malato e senza minori a carico, ignorando che per lavorare sono necessarie competenze e qualifiche adeguate alla domanda di lavoro? E non basta, bisogna che viva in “contesti in cui il mercato del lavoro ha una domanda”.

Comunque si dimentica – aggiunge Saraceno – che i lavori che si trovano sono “lavori poveri”, sottopagati, precari, che non consentono di sopravvivere con un minimo di dignità. Tanto è vero che ci sono famiglie che percepiscono il reddito, e sono quindi sotto la soglia di povertà, sebbene ci sia tra loro un occupato.

Al suo nascere, il reddito è stato proposto, tuttavia, non come politica di sostegno, che avrebbe dovuto essere accompagnata da misure di inclusione sociale, ma come politica attiva del lavoro, e sotto questo profilo – a parere di Saraceno – non poteva che fallire. E non perché l’Italia non abbia bisogno di politiche attive per il lavoro, ma perché questa misura non ne aveva le caratteristiche.

Per avere politiche per il lavoro degne di questo nome, bisognerebbe investire in risorse e in azioni capaci di contribuire a creare “domanda di lavoro non sfruttatoria”. Si è già visto quanto sia difficile con il programma GOI (Garanzia di occupabilità), con il quale sono state formate 300mila persone che, per lo più, lavoro non ne hanno trovato.

Il reddito di cittadinanza va quindi ripensato come sostegno alla povertà, senza criminalizzare chi lo percepisce e senza generare ansia in chi teme di perderlo, tanto meno creando risentimento sociale tra gli ultimi e i penultimi della società, i ceti più modesti che non capsicono perché ne sono esclusi mentre altri lo ricevono.

Che fare allora? Innanzi tutto – dice la sociologa – i decisori politici devono fare chiarezza sulle loro intenzioni. Devono, poi, rendere le misure più eque, correggendo i criteri attuali che penalizzano i più fragili, a comincaire dalle famiglie numerose con minorenni. Saraceno non esita a definire assurda, per esempio, la scala di equivalenza che fa contare un minore la metà di un adulto.

Ci sono già dieci proposte di modifica al reddito, elaborate dalla commissione creata dal ministro Orlando sotto la presidenza della stessa Saraceno, ma accantonate dall’attuale governo. La commissione, prevista dalla legge istitutiva del reddito e mai costituita dal governo giallo-verde, ha prodotto anche degli articolati di legge che avrebbero permesso di finanziare subito le proposte. Un lavoro svanito nel nulla, dato che la nuova ministra Calderone, e il governo tutto, non ha neanche risposto alla proposta di mettere a disposizione quanto prodotto.

Ancora una volta si partirà da zero, senza recuperare gli aspetti positivi degli interventi precedenti. E’ avvenuto con il REI (reddito di inclusione), sottofinanziato e quindi insufficiente, ma ben disegnato dal punto di vsita della governance, una caratteristica positiva che non è stata ripresa dalla misura successiva.

Il governo attuale annuncia modifiche, ancora poco chiare, con nuove regole e conseguenze pesanti anche per i servizi che ogni volta devono reimparare e ricominciare anch’essi da zero. Si ripete che il lavoro c’è e basta cercarlo, anzi basta accettarlo ma, se è vero che esiste una domanda di lavoro che non trova risposta, raramente è rivolta alle qualifiche, molto basse quando non assenti, di chi percepisce il reddito.

Così come non è possibile pensare che chi vive a Messina vada a Trieste per un lavoro temporaneo di pochi mesi, anche pagato regolarmente, ma non in modo adeguato al costo della vita. Spostamenti sul territorio nazionale sono ipotizzabili solo se riguardano un orizzonte temporale lungo e prevedono remunerazioni adeguate.

Non dimentichiamo – precisa Saraceno – che l’importo medio del reddito di cittadinanza per famiglia è di 550 euro. Solo uno stipendio buono diventa conccorrente, ma sono spesso gli stessi datori di lavoro, come avviene nella ristorazione e nel turismo, a concordare un salario basso, in nero, lasciando che il lavoratore si tenga il reddito. Nel caso che il lavoratore volesse regolarizzare, per ogni euro che guadagna gli verrebbero tolti 80 centesimo di reddito. Questo non incentiva il lavoro regolare, che diventa conveniente e preferibile al reddito solo se ben pagato. Cosa che in genere non accade.

Argo

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