“In casa Incorpora non vi fu mai un Natale senza che si costruisse il Presepe”, leggiamo sul sito web dedicato a Salvatore Incorpora, artista di origine calabrese ma siciliano di adozione.
I pastorelli imparò a plasmarli dalla madre, Gemma, a Gioiosa marea, dove era nato. Plasmò un presepe anche durante la guerra, quando era prigioniero a Warthenau, in Polonia. E continuò a realizzarli a Linguaglossa e a Catania, le due città in cui visse la maggior parte della sua vita, e molti ne fece per le mille mostre natalizie a cui venne invitato nel corso degli anni.
Come scrive Sergio Cristaldi, “è impressionante la folla innumerevole di figure, anche entro dimensioni ridotte” che popola i suoi presepi.
Se, infatti, “Incorpora ha realizzato presepi di misura notevole, ne ha plasmato altri in miniatura, quasi tascabili; i secondi non meno dei primi rigurgitano di questa moltitudine che si accalca verso la grotta della natività.
“Non meno caratteristici i materiali svariati, anche poveri: quelli di Incorpora sono presepi polimaterici, a cui possono concorrere, insieme alla terracotta, anche il das, il sughero, il legno di radici o di rami d’albero, le pietre, questo o quel fossile, le conchiglie. Tutta la materia è cooptata nel movimento; come dire, l’intera realtà cosmica. Essa non è solo la cornice in cui si situano l’irruzione di Dio e il suo riconoscimento da parte dell’uomo; o se si vuole, è una cornice coinvolta. Superamento del dualismo fra spirito e materia: non c’è qui residuo concreto che resti immune dal kairos, dal tempo propizio incuneatosi nella natura.”
Non solo nei presepi ma in tutta la sua produzione artistica Incorpora dimostra una originalità “legata al suo peculiare umanesimo”.
“È che gli uomini sono umiliati e offesi, e in ogni caso manchevoli, distanti dalla loro realizzazione compiuta, e Incorpora non sa evadere da questa constatazione, al contrario, è determinato a enfatizzarla, per questo tormenta i corpi, le espressioni, le pose, anche quando inquadra circostanze che dovrebbero riuscire serene. L’umanità che il suo segno restituisce è prossima al dissolvimento. E tuttavia non scompare, non viene precipitata in un’assenza di profili. Siamo di fronte a una testimonianza lucida ma non disperata, ma intrisa di pietà. Ecce homo: una deformità solcata dal bisogno di forma, una disarticolazione che aspira a esser ricomposta.
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“È bene puntualizzarlo: la salvezza attesa non è l’arte stessa. Incorpora non si arroga una pretesa di trasfigurazione, continua a ostentare ferite. Eppure, strappi e squarci restano visibilmente piaghe di figli, di madri, di diseredati, di corpi insomma in cui un’umanità patisce; e dove ci sono membra straziate, ma tuttora umane, c’è tensione verso un riscatto, clamorosamente chiesto o sperato in segreto”.
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