Ex Monte di Pietà, ecco perchè la ristrutturazione ci preoccupa

I lavori di ristrutturazione dell’ex Monte di Pietà (oggi di proprietà della famiglia Proto, la stessa che gestisce la discarica Oikos di Motta S.Anastasia) rispettano le norme urbanistiche? gli scavi producono danni archeologici?

Argo si è interrogato su questi lavori, sui permessi concessi e sulle relative varianti e, attraverso una richiesta di accesso civico generalizzato, ha chiesto la relativa documentazione.

Ci chiediamo, innanzi tutto, perchè siano stati frapposti così tanti ostacoli e ritardi (sei mesi invece dei 30 giorni previsti dalla legge) per consegnarci i documenti.

Inizialmente ci hanno detto che non avevamo spiegato la motivazione della nostra richiesta, sebbene l’accesso civico generalizzato non richieda un interesse diretto essendo stato pensato proprio per permettere ai cittadini un controllo degli atti della pubblica amministrazione; poi ci hanno detto che non potevamo pretendere di avere anche i grafici di un progetto proposto da una ditta privata, sebbene sia diritto dei cittadini conoscere in che termini venga realizzata la ristrutturazione di un edificio storico, per di più collocato in zona di interesse archeologico.

Non basta, dopo vari scambi di PEC e infruttuosi tentativi di contatti telefonici (sollecitati peraltro dall’Ufficio), volevano consegnarci tutti i fascicoli attinenti al progetto, addirittura nove (che poi nove non possono neanche essere…), una mole incredibile di carte, per la modica somma di 500 euro di diritti di segreteria, senza darci la possibilità di scegliere i documenti più significativi.

Siamo infine arrivati, con l’assistenza di un noto legale, ad un compromesso sulla consegna della copia dei file dei due fascicoli più recenti e sul pagamento di soli, si fa per dire, 100 euro di diritti. Una ‘concessione’ definita, dal resposnsabile dell’Ufficio, un “servizio di privilegio fino ad oggi non consentito a nessun utente”.

Ci siamo così rirovati una quantità di documenti non indifferente, all’interno dei quali abbiamo cercato le risposte agli interrogativi che questo intervento di ristrutturazione ci aveva fatto sorgere,

Da un primo esame dei documenti, possiamo trarre alcune conseguenze.

La conformità urbanistica non c’è. E non ci riferiamo solo a singole infrazioni delle norme, come il numero di posti letto, che dovrebbero essere al massimo 100 (in presenza di adeguati spazi di parcheggio), mentre ne vengono previsti 118.

La questione è più radicale. L’immobile è infatti in centro storico e, in quest’area, il Piano Regolatore Generale vigente non consente la ristrutturazione edilizia se non in presenza di un piano particolareggiato o di un piano di recupero, di cui non abbiamo trovato traccia né menzione.

La ristrutturazione edilizia di questo edificio non è consentita neanche dal recente studio sulle tipologie edilizie che classifica l’ex Monte di Pietà come edilizia monumentale specialistica, non passibile di ristrutturazione. Uno studio che non ha ancora valore cogente perché in attesa di essere approvato dal Consiglio comunale, ma è comunque indicativo.

Ed il paradosso è che lo studio sulla tipologia degli edifici è stato elaborato dallo stesso Ufficio urbanistico che, a livello normativo, vieta la ristrutturazione di edifici per i quali concede, con singoli provvedimenti, il permesso di ristrutturare.

In soldoni l’Urbanistica, a Catania, ha classificato il Monte di Pietà come monumento non soggetto a ristrutturazione, ‘dimenticando’ di aver già dato, e più volte ribadito, un ok all’intervento per ristrutturarlo.

E veniamo alla questione archeologica.

Una questione grossa perché l’area in cui sorge l’edificio corrisponde a quella delle necropoli, subito fuori dalle mura della città cinquecentesca. La presenza di tombe sotto l’ex Monte di Pietà non è solo una ipotesi, è espressamente segnalata dall’archeologo Edoardo Tortorici nella sua Carta archeologica di Catania antica, in cui leggiamo che “numerose sepolture vennero alla luce alla fine dell’Ottocento, nel corso della costruzione del palazzo del Monte di Pietà”.

Come mai allora la Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Catania non si è opposta ad un progetto di ristrutturazione che prevede anche un parcheggio interrato e relative operazioni di scavo?

Nell’ultimo permesso per costruire, rilasciato all’Oikos dall’Urbanistica in data 11 agosto 2020, non si fa completamente cenno ad un parere della Soprintendenza o a vincoli da essa posti. Eppure, tra i documenti che ci sono stati consegnati, abbiamo rintracciato non uno ma più pareri di quest’Ente, emessi in anni diversi e in termini differenti.

ll più dettagliato risale al 2008, l’anno della prima concessione edilizia, quando il Soprintendente era Gesualdo Campo, anche se il parere è firmato dalla dirigente del Servizio Beni Archeologici, Maria Grazia Branciforte, una archeologa di tutto rispetto, a cui si deve la creazione del parco archeologico di Catania.

Viene, innanzi tutto ricordato che il progetto, che prevede “notevole profondità di scavo”, riguarda l’area delle necropoli romane, dove sono già attestati numerosi ritrovamenti. Branciforti prescrive dunque che “le modalità di scavo per ogni singolo settore” vengano concordate con il ‘servizio’ archeologico della Soprintendenza, il cui personale deve seguire i lavori sin dall’inizio e può imporre – se necessario – l’esecuzione dello scavo senza l’uso di mezzi meccanici o altre prescrizioni, compresa l’eventuale modifica del progetto, come previsto dal Codice dei Beni culturali.

Per “approntare la necessaria sorveglianza”, viene inoltre richiesto che l’inizio dei lavori venga comunicato con 20 giorni di anticipo .

Ormai scaduto, il parere di Branciforte, viene solo parzialmente ripreso, nell’ottobre del 2019, dal parere espresso dalla Soprintendente Rosalba Panvini, che conferma la necessità di comunicare in anticipo l’inizio dei lavori, ma non fa alcun cenno alla presenza di ritrovamenti già attestati di tombe romane.

Sono scomparse anche le notazioni sulla profondità dello scavo e sulla necessità di monitorarlo in “ogni singolo settore” escludendo eventualmente l’utilizzo dei mezzi meccanici.

La cosiddetta alta sorveglianza esercitata dalla Soprintendenza rischia di ridursi ad un avallo di interventi invasivi esercitati con le ruspe. La parte più corposa del parere di Panvini riguarda l’aspetto monumentale dell’edificio, su cui di fatto viene spostata l’attenzione, e contiene prescrizioni relative alla conservazione e al restauro del facciata, della scala interna del piano terra, del prospetto della terrazza.

Non a caso il successivo parere, datato dicembre 2019, sempre a firma Panvini, è emesso dalla Sezione Beni Architettonici e fa riferimento solo alla tutela monumentale. Di archeologia non se ne parla più, a meno che non esista un altro parere della Sezione Archeologica che non ci è noto.

In attesa di avere un quadro completo e dettagliato di tutti i pareri espressi dalla Soprintendenza, non possiamo non esprimere la nostra preoccupazione.

Perchè non sono stati realizzati i saggi archeologici preventivi (fatti a mano e non certo con le ruspe!) previsti dal Codice dei Beni culturali all’art. 28, comma 4? O indagini approfondite sul terreno utilizzando i nuovi strumenti tecnologici ora disponibili quali la tomografia?

Nulla di tutto questo ci risulta, come se non fosse in ballo un bene comune unico e irrepetibile.

Le istituzioni che avrebbero dovuto difendere l’interesse pubblico hanno consegnato, ancora una volta, agli interessi di un privato quello che appartiene alla città.

Argo

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