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Morbo di K, un virus 'resistente'

In piena emergenza covid 19, annichiliti e assediati nelle nostre abitazioni, cerchiamo di rintracciare nella storia le epidemie che hanno flagellato l’umanità per scoprirne analogie e differenze.

E oggi, alla vigilia del 25 aprile, scegliamo di parlare della terribile epidemia, della malattia sconosciuta, e molto pericolosa, scoppiata durante la seconda guerra mondiale nell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, sull’isola Tiberina.

Si chiamava morbo di K ma, pur avendo sintomi molto gravi e pur essendo molto contagiosa, non fece alcuna vittima. Tutt’altro.

Per raccontare quello che accadde bisogna risalire a quel 16 ottobre 1943 chiamato “sabato nero”, quando le truppe tedesche della Gestapo fecero irruzione nel ghetto di Roma e rastrellarono ben 1259 persone tra donne, uomini, bambine e bambini, la gran parte dei quali venne deportata ad Auschwitz.

A ricostruire questa immane tragedia è Giacomo Debenedetti, uno dei maggiori critici letterari italiani del ’900, nel suo breve saggio-racconto, “16 ottobre 1943. Il rastrellamento del ghetto di Roma”, in cui rievoca quella tragica giornata (a cui lui stesso sfuggì rifugiandosi in casa della vicina) dando voce ai reali protagonisti.

Una di questi era “la Celeste, una tizia strana, un po’ tocca, ma chiaccherona, una esaltata, una fanatica”. Il caso vuole che capiti proprio a lei il compito di portare la notizia dell’imminente arrivo dei tedeschi. Pochi le prestarono ascolto, anche perché una ventina di giorni prima il maggiore Kappler aveva promesso che, se la comunità giudaica avesse consegnato a lui 50 Kg di oro, sarebbe stata risparmiata.

Il centinaio di ebrei che riuscì a sottrarsi alla cattura chiese aiuto all’ospedale Fatebenefratelli, dove un gruppo di medici prestava cure ai partigiani.

Il primario Giovanni Borromeo, un antifascista che non aveva mai voluto prendere la tessera del partito, li ricoverò tutti. Con l’aiuto di due giovani medici, Adriano Ossicini (nella foto), partigiano, laureando e volontario, e Vittorio Emanuele Sacerdoti, studente ebreo che operava sotto falso nome, cominciò la stesura delle cartelle cliniche.

La diagnosi fu la stessa per tutti: morbo di K, con riferimento alle iniziali dell’ufficiale Kappler e del generale Kesserling.

Una malattia infettiva devastante e mortale, altamente contagiosa tanto da richiedere, per chi ne era affetto, l’isolamento in un padiglione clinico specializzato.

Furono aiutati dal priore dell’Ospedale, fra’ Maurizio Bialek dell’ordine San Giovanni Calibita, un polacco coraggioso e dalla lunga vista. Infatti era stato proprio lui a chiamare Giovanni Boromeo nel 1934 allorquando, pur vincitore di due concorsi agli Ospedali Riuniti di Roma, non era stato assunto perché si era rifiutato di prendere la tessera del partito.

I due si incontrarono e fra’ Maurizio disse al dottore: “tu hai il titolo e non hai il posto, io ho il posto e non ho medici; se ci mettiamo assieme possiamo riuscire nel progetto”. Ad una condizione, non badare a spese per dotare l’antico ospedale di tutte le strutture, i macchinari e il personale necessari. Fu così che venne recuperato l’antico nosocomio che diventò una delle più efficienti strutture della capitale.

I finti malati furono trasferiti in un apposito reparto mentre negli scantinati venne collocata una ricetrasmittente per comunicare con i partigiani laziali.

Furono procurati anche falsi documenti ai perseguitati che, dichiarati morti per il morbo, venivano trasferiti in altre strutture cittadine.

Quando le SS si presentarono al Fatebenefratelli, il personale sanitario li accolse con le mascherine e mostrò le cartelle cliniche con la descrizione precisa e dettagliata della malattia. Nel libro “Il giusto che inventò il morbo di K”, Pietro Borromeo, figlio di Giovanni, ci racconta dell’incontro del padre con le SS.

“Papà li accoglie con il miglior sorriso che riesce a sfoderare. Parla fluentemente la lingua che ha studiato da bambino e perfezionato in seguito. Illustra scientificamente la gravità del morbo K, descrivendone sintomi, estrema incertezza di una possibile guarigione, il terribile contagio, i gravi esiti permanenti. Mostra le cartelle cliniche e chiede all’ufficiale medico della Wehmarcht di visitare egli stesso i malati, ma il quadro che ne aveva fatto terrorizza i tedeschi che cominciano a tenersi alla larga. […] Di fatto poco dopo se ne andarono. Papa mi dirà in seguito che per fortuna quel medico tedesco non era un genio. Ma questo è tipico della sua modestia. Il genio era lui”.

Giovanni Borromeo, morto nel 1961, ha ricevuto l’onorificenza “Giusto fra le nazioni” il 2 marzo 2005.

Adriano Ossicini, morto nel 2019 dopo essere diventato un famoso psicoanalista, è stato il promotore della legge sull’Ordinamento della professione di psicologo.

Vittorio Sacerdoti (nell’ultima foto), morto nel 2015, ha continuato a curare la comunità ebraica, mentre l’Ospedale Fatebenefratelli ha ricevuto il titolo di Casa di vita dalla Fondazione Wallenberg il 21 giugno 2016.


Argo

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