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Oltre la crisi al confine greco-turco, uno sguardo sulla guerra in Siria

Accordi e tregue militari disattesi, imboscate e massacri condotti dall’una e dall’altra parte in conflitto: questa è oggi la guerra che si svolge in Siria.

Dalle prime manifestazioni di massa al tempo delle primavere arabe alla violenta repressione del dittatore Assad, dalla nascita del Califfato all’intervento russo, dai bombardamenti USA all’invasione turca, per tacere della presenza in campo di milizie di varia appartenenza: il tutto nel quadro della lotta per l’egemonia nel Medio-Oriente, contesa tra Iran e Arabia Saudita.

La prima che utilizza Siria, Iraq e Libano sciita come pedine, la seconda che ha come alleati Egitto, Emirati del Golfo, escluso il Quatar, di fatto Israele (unica potenza nella regione dotata di armamento nucleare). E, sotto traccia, gli USA.

In tale contesto la Turchia di Erdogan, invisa al fronte Saudita – Egiziano per il suo sostegno alla Fratellanza mussulmana, cerca la sua collocazione rinverdendo esplicitamente i fasti dell’impero Ottomano.

Non possono essere sottaciute le responsabilità dei paesi occidentali che sono intervenuti o militarmente o finanziando le diverse componenti in lotta, disinteressandosi poi degli effetti delle loro azioni: USA, Gran Bretagna, Francia, e, in qualche modo, anche l’Italia.

In questo modo si è destabilizzata non solo la Siria, ormai ridotta in macerie, ma l’intero Medio Oriente. Ma questo è uno scenario già visto altrove: Somalia, Iraq, Libia sono solo alcuni esempi, per certi versi lo è anche Yemen.

Per non parlare della NATO. Erdogan vorrebbe addirittura attivare la clausola del Trattato istitutivo che prevede l’entrata in guerra degli alleati nel caso in cui uno dei membri dell’Alleanza venga aggredito.

E la Turchia, membro della NATO, sarebbe, secondo Erdogan, uno Stato aggredito. I Paesi europei dovrebbero a questo punto dire a voce forte e chiara di non riconoscersi in un’organizzazione nella quale vi è anche la Turchia a guida di Erdogan che pretende di fare i suoi comodi, in un Paese, la Siria che, non è il suo, e pretende, per di più, il sostegno degli altri Paesi dell’Alleanza.

Urge pertanto una riforma radicale di tale organizzazione politico-militare, dal momento che è completamente cambiata la sua ragion d’essere già con la fine della guerra fredda.

E’ evidente che la pace in Siria è un obiettivo strategico, per chi sinceramente si batte per la pace, anche per la destabilizzazione di tutta l’area medio-orientale, provocata dal perdurante conflitto, del quale i milioni di profughi sono un effetto non secondario.

Ma è un obiettivo che richiede tempi lunghi perché comporta la riconciliazione fra le varie componenti etniche e religiose della società siriana, nella ovvia garanzia dell’intangibilità dei confini esistenti.

E questo, a fronte delle ambizioni di paesi confinanti, o quasi, quali Turchia e Arabia Saudita, i quali ça va sans dir, nutrivano, e probabilmente nutrono tutt’ora, forti appetiti in ordine allo smembramento del territorio della Siria.

E’ però evidente che tale intangibilità dovrebbe valere per tutti i confini nella regione, compreso quelli dei territori palestinesi, che non godono, in questo momento, di nessuna garanzia, anche perchè fino ad ora non è stato ufficialmente riconosciuto lo Stato Palestinese.

E soprattutto la ricerca di un accordo tra le fazioni politiche e religiose coinvolte (da un lato Assad, dittatore sanguinario e il suo gruppo dirigente, erede del vecchio Baath siriano, di religione alawita, componente dello sciismo, che esercita il dominio su un Paese a grande maggioranza sunnita; dall’altro i ribelli, solo alcuni autenticamente democratici, ma molti di dichiarata appartenenza islamista e quaedista o reduci dell’ISIS) e la risoluzione della questione almeno dei curdi di Siria.

Nel finto isolazionismo degli USA a guida Trump (si pensi alla denuncia del trattato con l’Iran e all’uccisione con un drone del generale iraniano Suleyman), particolarmente nell’anno che precede le elezioni presidenziali e nel quale la politica estera subisce un notevole “stallo”, è l’Europa e gli Stati europei che dovrebbero prendere l’iniziativa.

Ed è ovvio che il primo passo dovrebbe essere quello della ripresa del dialogo con la Russia di Putin. Può non piacere, ma il leader russo è l’unico che, seppure mosso da un interesse evidente – quello, in particolare, di essere presente nel Mediterraneo e nel Medio-Oriente – ha una visione, con la quale è comunque possibile trovare dei punti di incontro (molto più che con Trump o, peggio, con Erdogan).

Ma per fare questo l’Europa ha bisogno di darsi un ruolo, quello di soggetto di politica estera, che, finora non ha mai avuto, avendolo, di fatto, delegato ad altri (a seconda delle situazioni, gli Stati Uniti, la NATO, la Gran Bretagna o la Francia).

Altrimenti l’Europa rischia di essere completamente tagliata fuori dagli scenari medio-orientali che comunque, già da oggi, vanno dipanandosi intorno alla centralità della diplomazia di Putin, il quale, allo stato, è l’unico leader che riesce ad avere un’interlocuzione con tutti gli Stati medio-orientali.

Solo avviando a soluzione la crisi siriana sarà possibile pensare di risolvere il problema dei profughi, non solo siriani, provenienti dai campi della Turchia, oltre che dalla Siria. Altrimenti continueremo ad avere la vergogna dei campi di Lesbo, i bambini che muoiono di fame e di freddo, gli attacchi dei militanti dell’estrema destra, gli incendi.

Discorso analogo, sia detto per inciso, vale anche per la crisi libica e per i profughi ivi trattenuti, provenienti in gran parte dall’Africa sub-sahariana.

Riuscirà l’Europa a darsi un suo profilo di politica estera decente, anche solo sui temi appena evidenziati? Lo vedremo molto presto.

Argo

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