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Fantastico quel Gramsci!

Il titolo rimanda a tutt’altro. Addirittura a Bond, “Il mio nome é Bond, James Bond”. Il personaggio, però, é di tutt’altro calibro. E’ Antonio Gramsci, un politico di grande spessore e il cui pensiero, secondo l’autore, Giuseppe Amata, “si può considerare patrimonio culturale non di parte ma dell’intera umanità”.
E come si può non condividere l’opinione di un uomo per il quale la politica é da sempre un chiodo fisso?
Giuseppe Amata, Pippo o Peppino per gli amici, fino a qualche tempo fa docente di Economia ed Estimo ambientale all’Università di Catania, non ha smesso, infatti, di abbinare la passione per la politica a quella per l’insegnamento. E’ stato membro della direzione nazionale dei giovani del PSIUP tra il 64 e il 68 e componente del Comitato politico nazionale del Partito della Rifondazione Comunista tra il 1991 e il 1996.
Adesso continua a “setacciare” la storia per rintracciare, tra carte e documenti, “pepite” di realtà e di vita che riesce a miscelare creativamente con frammenti di fantasia.

Nasce così, dopo altre pubblicazioni, anche “Il mio nome é Antonio”, l’immaginaria intervista di un medico a un Gramsci ormai vicino alla fine, tra fantasia, citazioni del pensiero del politico, fatti reali e analisi storica dei medesimi.
Come in un film, vengono fuori dalle pagine del libro i “fotogrammi” della vita del fondatore del Partito comunista, pensatore politico, storico, critico letterario, filosofo. Ma anche uomo, un uomo col suo pince-nez e la sua schiena resa irrimediabilmente curva da una rovinosa caduta dalle braccia della governante. Piccolo, gracile, lo sguardo penetrante e la testa piena di capelli. Così lo descrive Pertini che lo conobbe, anche lui prigioniero nel carcere fascista di Turi, vicino Bari: “La testa di Danton sul corpo di un pigmeo ma il capo era scultoreo, con due occhi azzurro-acciaio che quando puntavano l’interlocutore non lo lasciavano mai”.
All’inizio del libro di Amata troviamo, dunque, Gramsci, scortato da un commissario e da due agenti di polizia, all’interno di uno scompartimento vuoto sul treno che da Napoli conduceva a Roma.
Siamo nel 1935; é una giornata torrida come possono essere quelle di fine agosto. L’uomo politico é stanco, fiaccato dalla malattia, spossato dalle alte temperature. Gli è stato concesso di lasciare il carcere per una struttura più idonea alle sue condizioni di salute ma non a Fiesole come da lui richiesto per il clima. Sarà, invece, ricoverato nella clinica Quisisana di Roma, dove pazienti e medici mostrano di non gradire affatto la sua presenza.
Solo Mario, un giovane sanitario tirocinante (inventato di sana pianta da Amata), prova interesse e curiosità verso Gramsci con il quale intavola una lunga conversazione che si snoda tra le pareti della struttura giorno dopo giorno, anzi notte dopo notte, nel corso dei turni di guardia.
Il fondatore del Pci, rispondendo alle domande del dottore racconta delle carceri di Ustica, Turi e Milano, della brigata Sassari, del processo e del pubblico ministero, lo stesso che a prestar fede a un’articolo scritto da Togliatti nel 1937, avrebbe dichiarato, parlando di Gramsci: «Per venti anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare».
Racconta della militanza comunista, degli studi in carcere, delle lettere ricevute, della moglie Giulia. Parla della domanda di grazia che si é sempre rifiutato di firmare, nonostante le insistenze dei familiari; della scuola, delle malattie, dell’insonnia e delle emorragie. Di trattative diplomatiche fallite, degli intellettuali e di Croce, del Mezzogiorno, della scissione di Livorno dal partito socialista.
Poliedrico, Gramsci giudica anche Pirandello, Martoglio e Angelo Musco; secondo lui la Sicilia conserverebbe “una sua indipendenza spirituale”.
Nonostante l’uomo Gramsci sia schivo e riservato, in una lettera alla moglie si lascia andare, però, ad una interessante confessione. Giuseppe Amata la riporta. E l’intellettuale italiano rivela la sua “difficoltà grande a esteriorizzare i sentimenti” motivata dal fatto che “se la Sardegna é un’isola, ogni sardo é un’isola nell’isola”.

Argo

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